mercoledì 31 ottobre 2012

Papa Luciani: "Senza timori e calcoli umani, con la fortezza degli umili!"



Venezia ha ricordato martedì 30 ottobre il centenario della nascita di Albino Luciani, già Patriarca della diocesi lagunare prima di diventare nel 1978, e per soli 33 giorni, Papa Giovanni Paolo I. E lo ha fatto con un doppio appuntamento: innanzitutto alle ore 18.00, nella basilica cattedrale di S. Marco, la S. Messa presieduta dal Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia insieme ai vescovi della Conferenza episcopale triveneta; subito dopo, alle ore 20.30, il concerto di musica sacra offerto dalla Procuratoria della Basilica di San Marco, dall'Istituto Polacco di Roma e dalla Fondazione Capella Cracoviensis di Cracovia con il contributo del Ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia e della Città di Cracovia. Il programma del concerto prevedeva le composizioni di due tra i massimi esponenti della scuola veneziana del XVII secolo: Giovanni Gabrieli, compositore, organista e maestro di cappella della Basilica di San Marco del quale ricorrono i 400 anni dalla morte (1612) e Mikolaj Zielenski, compositore, organista e maestro di cappella legato alla Collegiata di Lowicz (sede del Primate polacco). Le composizioni di Mikolaj Zielenski verranno presentate per la prima volta nella Basilica di San Marco dopo la loro pubblicazione avvenuta nel 1611 nell’officina di Giacomo Vincenti a Venezia. Ad eseguire il concerto è stato il Collegium Zielenski diretto da Stanislaw Galonski, uno dei massimi esperti nel campo dell'esecuzione e promozione della musica antica, insieme a Joel Frederiksen (basso profondo) e ai solisti dell’ensemble Collegium Zielenski.


Ecco alcuni passaggi dell riflessione del Patriarca Moraglia che, nell'omelia, ha così tratteggiato la figura di Albino Luciani: “Ma chi era questo figlio della terra veneta che divenne patriarca di Venezia e sommo pontefice della Chiesa cattolica? Albino Luciani fu un sincero e onesto lavoratore della vigna del Signore, uomo profondamente obbediente a Dio e al Suo progetto, chiamato a compiti e decisioni davvero ardue. Annunziare il Vangelo senza rinnegarlo, stare di fronte al mondo senza temerlo e senza scendere a compromessi, presiedere a una comunità cristiana ferita nella comunione, senza cedere alla tentazione di conquistarsi una facile notorietà, significa infatti caricarsi della propria parte di sofferenza. A Venezia il ricordo del patriarca Luciani è ancora vivo nel popolo di Dio e, col passare del tempo, l’affetto si unisce alla crescente stima per la sua santità: è quanto, con piacere, ho potuto constatare di persona fino ad ora. Nel messaggio d’inizio pontificato Giovanni Paolo I ha espresso in modo compiuto il suo pensiero sulla Chiesa vista come corpo vivo, realtà comunionale ed evangelizzatrice. Parlò agli uomini e alle donne di Chiesa chiamandoli, semplicemente, figli e domandò di prendere coscienza della loro responsabilità e superare, così, le tensioni interne ponendoli in guardia dalla tentazione di uniformarsi al mondo, non ricercando il facile applauso ed esortandoli con forza affinché diano testimonianza della propria fede davanti al mondo. Il fermo richiamo a prendere le distanze dalla tentazione d’uniformarsi al mondo spiega quello che fu il suo costante stile di prete, vescovo e papa. Siamo di fronte non a un generico appello all’unità ma all’effettiva comunione ecclesiale costruita attorno a Gesù Cristo e al suo Vangelo, prendendo le distanze da mediazioni che svuotano il Vangelo e portano il cristiano ad essere il “notaio” di quanto, di volta in volta, gli viene proposto. Ma così facendo si svuota il buon annuncio del Vangelo… Per quanto riguarda la breve ma densa apparizione di Luciani sulla cattedra di Pietro osservo che gli avvenimenti non ricevono senso solo dalla durata; hanno significato per ciò che rappresentano in se stessi e per la forza con cui sono capaci di generare futuro. Avvenimenti improvvisi possono produrre novità sostanziali mentre avvenimenti di lunga durata non è detto che riescano a generare novità. Come il classico “sasso” gettato nello stagno, al pontificato di Paolo VI - il cardinale italiano Giovanni Battista Montini che, per oltre trent’anni, era stato a servizio della Curia romana -, faceva seguito il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, il cardinale italiano Albino Luciani, uomo del tutto estraneo alla Curia, e all’inizio non certamente tra i più accreditati candidati. Il pontificato di Giovanni Paolo I, anomalo per la sua brevità, va considerato proprio per tale fatto un inizio, un’antifona che, nella continuità della storia della Chiesa, segna una vera ripartenza. Con l’elezione a Papa del patriarca di Venezia, nato a Canale d’Agordo, di fatto mai uscito - se non per qualche breve viaggio - dal natìo Veneto e privo di ogni dimestichezza con la Curia, veniva “azzerato” uno schema che, agli occhi di molti, era ritenuto insuperabile. Per taluni Albino Luciani sarebbe stato, alla fine, solo un ingenuo e un semplice, un intransigente e una persona non all’altezza, non in grado di dire no ad un peso per lui eccessivo… Eppure in Giovanni Paolo I l’umiltà e l’obbedienza vissuta personalmente - e solo dopo chiesta agli altri -, il sincero amore a Cristo e alla Chiesa evidenziano pienamente l’animo della persona. Luciani s’impegnò sempre in un annuncio evangelico compiuto nella Chiesa e a nome della Chiesa, senza timori e calcoli umani: è questa la fortezza degli umili!”.


lunedì 22 ottobre 2012

Benedetto XVI e il fanone


«Il sacro non va mai in museo»

«Il sacro non va mai in museo». Risponde senza alcuna esitazione e con grande chiarezza don Nicola Bux all’obiezione che la scelta di Benedetto XVI di indossare paramenti ormai desueti possa offrire l’immagine di un Pontefice antiquato che ama gli abiti da museo. Amico di lunga data di Joseph Ratzinger, che nel 1997 presentò il suo libro “Il quinto sigillo”, Bux è consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e delle Cause dei Santi e dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie.
Proprio in quest’ultima veste ha lavorato alle modifiche alla liturgia papale che i fedeli e non solo di tutto il mondo hanno potuto notare, domenica scorsa, in occasione della canonizzazione di sette nuovi beati presieduta da Benedetto XVI. Un Papa liturgicamente inedito, quello che si è mostrato agli occhi di coloro che assistevano al rito in piazza San Pietro o lo seguivano in diretta televisiva. Papa Ratzinger, infatti, per la prima volta dall’inizio del suo pontificato, ha indossato il fanone papale, un paramento ormai desueto, utilizzato l’ultima volta, quasi trent’anni fa, da Giovanni Paolo II.

Don Nicola Bux perché Benedetto XVI ha indossato il fanone papale?
«Il fanone, si indossa sulla pianeta, ed è formato da due mozzette sovrapposte l’una all’altra; quella inferiore è più lunga di quella superiore. È di stoffa bianca e aurea, a lunghe linee perpendicolari, separate da una striscia amaranto o rossa. Sul petto sta una croce ricamata in oro».

Qual è il significato liturgico del fanone papale?
«Simboleggia lo scudo della fede (cfr. Efesini 6,16) che protegge la Chiesa cattolica, rappresentata dal Papa. Le fasce verticali di colore oro e argento, rappresentano l’unità e l’indissolubilità della Chiesa latina e orientale».

Per la prima volta, domenica scorsa, il rito della canonizzazione è stato anticipato prima dell’inizio della Messa. Era successo anche con il concistoro per la creazione dei nuovi cardinali a febbraio e, ancora prima, con il canto della Calenda la notte di Natale. Qual è il motivo di queste scelte?
«La ragione è di far cogliere sempre meglio la differenza tra ciò che appartiene al rito eucaristico della Messa e ciò che invece vi è aggiunto eccezionalmente. Oggi sempre più si tende a infarcire la Messa di altri riti o a fare commistioni indebite o a sovrapporvi frequentemente altri riti sacramentali. Tutto ciò finisce per non far percepire ai fedeli i contorni del Sacrificio Eucaristico, come dei singoli sacramenti e sacramentali, inducendo a ridurre la Messa a un palinsesto da riempire a piacimento».

Non c’è il rischio che agli occhi dei credenti e di tutto il mondo l’immagine del Papa con indosso vesti liturgiche desuete o le continue modifiche nella struttura dei riti da lui presieduti possano far apparire Benedetto XVI un Pontefice antiquato che ama indossare abiti da museo?
«Nessun rischio, ma il segnale che nella Chiesa c’è continuità di magistero: ciò che era sacro rimane sacro. L’indumento indossato per la prima volta da Benedetto XVI in questa canonizzazione, è stato indossato da Giovanni Paolo II come da Paolo VI, da Giovanni XXIII come da Pio XII. Quel che oggi si deve tornare a comprendere è che i paramenti liturgici non seguono le mode umane ma vogliono rendere gloria a Dio. I sacerdoti e i vescovi fino al Papa sono ministri cioè servi - il Papa è servus servorum Dei - quindi dinanzi alla Maestà divina devono presentarsi col massimo della dignità. La ricchezza dei paramenti ne è il segno sebbene mai abbastanza adeguato, e vi deve corrispondere la purezza del cuore e la castità del corpo, come scrive san Francesco nella Lettera ai Fedeli. Il sacro non va mai in museo. La corsa odierna alla musealizzazione della suppellettile sacra ha del patologico, quando non è giustificata dal motivo di salvaguardarne la conservazione. I paramenti sono in gran parte frutto di donativi del popolo di Dio per conferire splendore al culto divino. La modifica della struttura dei riti corrisponde all’esigenza di restaurare quanto si è deformato per l’usura del tempo o il cedimento alle mode del momento, onde permettere ai riti di esprimere più chiaramente la lex credendi della Chiesa. A differenza della beatificazione, la canonizzazione per esempio, è un atto solenne del magistero pontificio, che dichiara ex cathedra, cioè in modo infallibile, che alcuni suoi figli godono sicuramente della visione beatifica di Dio nel Paradiso, e possono essere invocati come intercessori e additati come esempi per tutta la Chiesa e non solo per le Chiese particolari».

domenica 14 ottobre 2012

Voci dal Sinodo - La Divina Misericordia


La misericordia di Dio - Cor ad cor loquitur

L’Instrumentum laboris presenta la situazione dell’uomo contemporaneo come quella di un “prigioniero di un mondo che ha praticamente espunto la questione di Dio dal proprio orizzonte”. La nuova evangelizzazione - afferma il documento - dovrebbe osare di ripristinare questa domanda su Dio ed aiutare l’uomo ad uscire dal “deserto interiore” (cfr. n. 86). 
Nasce la domanda di come far uscire l’uomo da questo deserto. Una cosa è certa. Non basta la scienza. Non bastano i documenti. Non bastano le nostre strutture ecclesiastiche. Esse, come tali, non raggiungono ancora il cuore dell'uomo. 
Segno caratteristico dei nostri tempi è che la Chiesa oggi parla in modo più efficace quando si esprime col messaggio della Divina Misericordia. Sembra che questo discorso tocchi maggiormente il cuore dell’uomo chiuso in se stesso, impelagato nel peccato ed in un’apparente autosufficienza, ma invece in cerca di senso della vita e di motivi di speranza. 
La Chiesa di Cracovia è il luogo e il centro privilegiato in cui nel secolo passato - segnato dal dominio di sistemi totalitari atei e come tali disumani - si fece sentire l’invocazione della misericordia. Dio si è servito di un’umile religiosa, santa Faustina Kowalska, come pure di un saggio e santo pastore, il cardinale Karol Wojtyla - Giovanni Paolo II, perché l’eterna verità su Dio “ricco di misericordia” (Ef 2, 4) risuonasse in modo più rilevante nell’agitato mondo di oggi. “L'umanità non troverà pace finché non tornerà alla fonte della misericordia”, che è in Gesù (Suor Faustina, Diario, n. 699). Pare che l’uomo di oggi sia riuscito a salvare in sé la sensibilità per una misericordia disinteressata. E proprio essa - la misericordia di Dio che si china sulla sua sorte - è in grado di farsi sentire e di toccare le corde più profonde del cuore umano. 
La devozione alla Divina Misericordia è diventata un metodo di formazione di cristiani zelanti e responsabili. 
Ne parlo e ne do testimonianza per indicare una delle vie comprovate nei nostri tempi attraverso la quale possiamo intraprendere la nuova evangelizzazione. Cor ad cor loquitur. Il cuore di Dio misericordioso parla al cuore dell' uomo. 

 S. Em. R. Card. Stanisław DZIWISZ,
Arcivescovo di Kraków

sabato 13 ottobre 2012

Voci dal Sinodo - Il fondamento dell'essere cristiani



Il fondamento dell'essere cristiani

La nuova evangelizzazione si presenta come un progetto pastorale che impegnerà la Chiesa nei prossimi decenni. E' urgente che prima del “fare” si possa ritrovare il fondamento del nostro “essere” cristiani in modo che la NE non sia sperimentata come un'aggiunta in un momento di crisi, ma come la costante missione della Chiesa. Si deve coniugare esigenza di unità, per andare oltre la frammentarietà, con la ricchezza delle tradizioni ecclesiali e culturali. Unità di un progetto pastorale, non equivale a uniformità di realizzazione; indica, piuttosto, l'esigenza di un linguaggio comune e di segni partecipati che fanno emergere il cammino di tutta la Chiesa più che l'originalità di una esperienza particolare. Si deve motivare perchè in un periodo di transizione epocale come il nostro, segnato da una crisi generale, è richiesto a noi oggi di vivere in modo straordinario la nostra ordinaria vita ecclesiale. Dobbiamo saper presentare la novità che Gesù Cristo e la Chiesa rappresentano nella vita delle persone. L'uomo di oggi, invece, non percepisce più l'assenza di Dio come una mancanza per la propria vita. L'ignoranza dei contenuti basilari della fede si coniuga con una forma di presunzione che non ha precedenti. In che modo si puo esprimere la novità di Gesù Cristo in un mondo impregnato di sola cultura scientifica, modellato sulla superficialità di contenuti effimeri, e insensibile alla proposta della Chiesa? Annunciare il Vangelo equivale a cambiare vita; ma l'uomo di oggi sembra legato a questo tipo di vita di cui si sente il padrone perchè decide quando, come e chi deve nascere e morire. Le nostre comunità, forse, non presentano più i tratti che consentono di riconoscerci come portatori di una bella notizia che trasforma. Esse appaiono stanche, ripetitive di formule obsolete che non comunicano la gioia dell'incontro con Cristo e sono incerte sul cammino da intraprendere. Ci siamo rinchiusi in noi stessi, mostriamo un'autosufficienza che impedisce di accostarci come una comunità viva e feconda che genera vocazioni, tanto abbiamo burocratizzato la vita di fede e sacramentale. In una parola, non si sa più che essere battezzati equivale a essere evangelizzatori. Incapaci di essere propositivi del Vangelo, deboli nella certezza della verità che salva, e cauti nel parlare perchè oppressi dal controllo del linguaggio, abbiamo perso credibilità e rischiamo di rendere vana la Pentecoste. Non ci serve in questo momento la nostalgia per i tempi passati né l'utopia per inseguire sogni; piuttosto, un'analisi lucida che non nasconde le difficoltà e neppure il grande entusiasmo di tutte le esperienze che in questi anni hanno permesso di attuare la NE.

S. E. R. Mons. Salvatore FISICHELLA,
Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione


Voci dal Sinodo - Il sacramento della penitenza



Il Sacramento della Penitenza è il Sacramento della Nuova Evangelizzazione

Il grande predicatore americano, il Venerabile Arcivescovo Fulton J. Sheen, ha osservato “la prima parola di Gesù è stata ‘venite’; l’ultima parola di Gesù è stata ‘andate’”
La Nuova Evangelizzazione ci ricorda che gli autentici operatori di evangelizzazione devono prima essere evangelizzati.
San Bernardo ha detto, “se volete essere un canale, dovete prima essere un serbatoio”.
Perciò credo che il sacramento più importante della Nuova Evangelizzazione sia il sacramento della penitenza, e ringrazio Papa Benedetto per avercelo ricordato.
Sì, i sacramenti dell’iniziazione... Battesimo, Confermazione, Eucaristia... obbligano, sfidano e forniscono del necessario gli operatori dell’evangelizzazione.
Ma il sacramento della riconciliazione evangelizza gli evangelizzatori, perché ci mette sacramentalmente in contatto con Gesù che ci chiama alla conversione del cuore e ci ispira ad accogliere il suo invito a pentirsi.
Il Concilio Vaticano II ha fatto appello a un rinnovamento del sacramento della penitenza, purtroppo e con tristezza quello che abbiamo ottenuto invece è stata la sparizione del sacramento.
Così ci siamo impegnati a chiedere la riforma delle strutture, dei sistemi, delle istituzioni, della gente diversa da noi. Sì, questo è positivo.
Ma la risposta alla domanda “cosa c’è di sbagliato nel mondo?” non è la politica, l’economia, il secolarismo, l’inquinamento, il riscaldamento globale... no. Come scrisse Chesterton “La risposta alla domanda ‘cosa c’è di sbagliato nel mondo?’sono due parole: sono io”.
Sono io! Ammetterlo porta alla conversione del cuore e alla penitenza, fulcro dell’invito evangelico. Ciò accade nel sacramento della penitenza.
È questo il sacramento della Nuova Evangelizzazione.

S. Em. R. Card. Timothy Michael DOLAN,
Arcivescovo di New York

venerdì 12 ottobre 2012

Voci dal Sinodo dei Vescovi


L'umiltà, il silenzio, il rispetto della Chiesa

Una ragazza ha chiesto: “Siamo noi giovani che ci siamo persi o è la Chiesa ad averci perduti?”. La sua domanda esprime il desiderio di una Chiesa in cui Gesù possa trovarla e in cui lei possa trovare lui. Ma per poter essere lo “spazio” per un incontro di fede con il Signore, la Chiesa deve imparare di nuovo da Gesù, nel quale incontriamo Dio.
La Chiesa deve imparare l’umiltà da Gesù. La forza e la potenza di Dio appaiono nello svuotamento di sé del Figlio, nell’amore che viene crocifisso ma che salva davvero perché viene svuotato di sé per gli altri.
La Chiesa è chiamata a imitare il rispetto di Gesù per ogni persona umana. Egli ha difeso la dignità di tutti, in particolare di quanti sono trascurati e disprezzati dal mondo. Amando i suoi nemici, egli ha affermato la loro dignità.
La Chiesa deve scoprire la forza del silenzio. Confrontata con il dolore, con i dubbi e con le incertezze delle persone, non può fingere di offrire soluzioni semplici. In Gesù il silenzio diventa la via dell’ascolto attento, della compassione e della preghiera. È la via verso la verità.
Le società in apparenza indifferenti e prive di obiettivi del presente stanno davvero cercando Dio. L’umiltà, il rispetto e il silenzio della Chiesa potrebbero rivelare in modo più chiaro il volto di Dio in Gesù. Il mondo trae gioia dal semplice fatto che testimoniamo Gesù, mite e umile di cuore.

S. E. R. Mons. Luis Antonio G. TAGLE,
Arcivescovo di Manila