domenica 29 aprile 2012

"Fiat voluntas tua": un pensiero del Beato Toniolo



"Fiat, fiat voluntas tua!"

"Oh mio Dio! Dunque la conoscenza e l'adempimento della vostra volontà è il fine della nostra vita quaggiù, è il compendio di tutti i nostri doveri; è l'obbiettivo e il termine dì ogni giustizia di ogni perfezione; è l'argomento d'ogni nostra gloria e d'ogni nostra felicità. Oh! Mio Dio, lasciate dunque che io vi faccia una preghiera che tutte le altre riassume, la preghiera che voi mio sovrano, mio padre, mio maestro, mi avete insegnato: fìat, fìat voluntas tua!

Oh! Sapientissima, o sovrana, o benignissima, o dolcissima volontà del mio Dio, quanto meritate di essere ricercata con semplicità di cuore, con fervore di desideri, con slancio di affetti, ricevuta e custodita con umiltà e gratitudine, eseguita con diligenza, generosità, instancabile operosità e perseveranza. Oh, in ciò consiste il dovere e la virtù della carità: perché che cosa è amore, fuorché l'aderire della volontà dell'amante alla volontà dell'amato, sicché di essi due per mezzo della volontà si effettui una ineffabile unione?"

Beato Giuseppe Toniolo

venerdì 27 aprile 2012

"Pro multis": la spiegazione nel libro di Benedetto XVI



tratto da korazym.org

La lettera che Papa Benedetto XVI ha recentemente inviato all’episcopato tedesco riapre una antica disputa interpretativa riguardante la corretta traduzione delle parole che il sacerdote pronuncia durante la consacrazione eucaristica. Nello spezzare il pane il presbitero ripete le parole di Gesù: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», nel consacrare il vino viene poi detto: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». L’annotazione suggerita dal Pontefice riguarda quest’ultimo passaggio della formula eucaristica, “versato per voi e per tutti”, dove l’espressione latina «pro multis» fu tradotta in italiano «per tutti».

Apparentemente i due termini non sembrano registrare una particolare distinzione. Benedetto XVI però nel suo ultimo libro “Gesù di Nazaret "Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione” spiega il valore pastorale di questa importante precisazione. Nei Vangeli di Marco e Matteo, infatti, dall’originale testo greco “upèr pollôn” (Mc 14, 24) e “perì pollôn” (Mt 26, 28) si traduce letteralmente con “per molti”. Fu il teologo Joachim Jeremias – orientalista ed esegeta tedesco – che cercò di dimostrare che la parola “molti” nell’Antico Testamento indica “la totalità” e che si potrebbe tradurre con “tutti”. Questa tesi – scrive Benedetto XVI nel suo libro – “si è allora presto affermata ed è divenuta una comune convinzione teologica. In base ad essa, nelle parole della consacrazione, il «molti» è stato tradotto in diverse lingue con «tutti». «Versato per voi e per tutti»”. Nel frattempo, però, – ricorda ancora il Pontefice – questa valutazione esegetica è stata nuovamente messa in discussione, e si ritiene che il termine “molti” (pur significando la totalità) non possa essere semplicemente equiparato con l’utilizzo del termine “tutti”. Tale esplicitazione non ha incontrato però il favore di tutti i vescovi, alcuni dei quali vedono in questa particolare sottolineatura il rischio (utilizzando il termine molti) di escludere alcuni dalla salvezza operata da Cristo, e il timore che i fedeli non capiscano il nuovo testo o lo interpretino esclusivamente nel senso di una “restrizione” del numero dei salvati.

Benedetto XVI ha scritto così una lettera all’episcopato tedesco – che ha recentemente tradotto in tedesco “fuer alle” (per tutti) e non più letteralmente, “fuer viele” (per molti) – per spiegare che in questa particolare e originaria traduzione l’«universalità» della salvezza non può essere messa in discussione, così come ricorda San Paolo quando scrive che Gesù «è morto per tutti». Il Pontefice riporta nella lettera i contenuti teologici già proposti nel suo ultimo libro su Gesù di Nazaret, dove, riprendendo le sottolineature di alcuni teologi, chiarisce quanto segue: “secondo la struttura linguistica del testo, l’«essere versato» non si riferisce al sangue, ma al calice; «si tratterebbe quindi di un attivo ‘versare’ del sangue dal calice, un atto in cui la stessa vita divina è donata abbondantemente, senza alcuna allusione all'agire di carnefici » (Gregorianum 89, p. 507). La parola sul calice quindi non alluderebbe all'evento della morte in croce e al suo effetto, ma all'atto sacramentale, e così si chiarirebbe anche la parola «molti»: mentre la morte di Gesù vale «per tutti», la portata del Sacramento è più limitata. Esso raggiunge molti, ma non tutti (cfr in particolare p. 511)”. Ma il problema della parola «molti» – precisa il Papa nel suo libro –, tuttavia, con ciò è spiegato solo in parte. “Che cosa, dunque, dobbiamo dire? – prosegue Benedetto XVI – Mi sembra presuntuoso e insieme sciocco, voler scrutare la coscienza di Gesù e volerla spiegare in base a ciò che Egli, secondo la nostra conoscenza di quei tempi e delle loro concezioni teologiche, può aver pensato o non pensato.

Possiamo solo dire che Egli sapeva che nella sua persona si compiva la missione del Servo di YHWH e quella del Figlio dell'uomo - per cui il collegamento tra i due motivi comporta allo stesso tempo un superamento della limitazione della missione del Servo di YHWH, una universalizzazione che indica una nuova vastità e profondità”. Benedetto XVI, nel testo della sua lettera ai vescovi tedeschi, invita a preparare sacerdoti e fedeli a questa modifica del Messale Romano: “Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l’entrata in vigore della nuova traduzione”. In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei, nel corso della prossima assemblea prevista per il mese di maggio, concluderà la discussione sul nuovo messale. Qualcuno ripeterà – c’è da scommetterci –, come da manzoniana memoria, le parole che il giovane Renzo rivolse al suo curato: «Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?». Qualcun altro – con le parole di don Abbondio – risponderà: «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa»!

lunedì 16 aprile 2012

Benedetto XVI: "il coraggio della gioia"!



"La gioia profonda del cuore
è anche il vero presupposto dello 'humour';
e così lo 'humour', sotto un certo aspetto,
è un indice, un barometro della fede".

- Benedetto XVI -

di Andrea Monda, via chiesa.espressoline.it


Non ho fatto un esame accurato, ma sono pronto a scommettere che se si analizzassero le ricorrenze verbali all'interno dei testi di Benedetto XVI, la parola più presente sarebbe “gioia”.

Partiamo da una delle tantissime sue affermazioni sull'importanza, per il cristiano, della gioia e proviamo ad applicarla a questo papa che si presentò appena eletto come "umile lavoratore nella vigna del Signore". È una frase tratta dal libro-intervista "Luce del mondo" e, posta quasi in apertura, suona categorica: “Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un'esistenza vissuta sempre e soltanto 'contro' sarebbe insopportabile”. 

Primo punto: gioia e ragione sono collegati. E il collegamento si trova in questa strana religione che “allarga gli orizzonti”. Scriveva Gilbert K. Chesterton parlando della sua conversione: “Diventare cattolici allarga la mente” e, più avanti: “Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.

Secondo punto, a sorpresa: ci eravamo forse abituati all'idea di un papa rivoluzionario, di un papa "contro”, ed ecco che arriva subito la smentita, perché non si può vivere “sempre e soltanto 'contro'”.

Ovviamente la contrapposizione è solo apparente. Nella stessa frase, più avanti, infatti il papa precisa:  “Ma allo stesso tempo ho sempre avuto presente, anche se in misura diversa, che il Vangelo si trova in opposizione a costellazioni potenti. […] Sopportare attacchi e opporre resistenza quindi fa parte del gioco; è una resistenza, però tesa a mettere in luce ciò che vi è di positivo”.

Resistenza, dunque, che vuol dire abbandono di ogni rassegnazione, lamento o risentimento, e cammino di ricerca paziente e tenace di “ciò che vi è di positivo”, di quella bontà che è nascosta nelle pieghe della storia degli uomini. È questo il coraggio di Benedetto, il coraggio della gioia: “La gioia semplice, genuina, è divenuta più rara. La gioia è oggi in certo qual modo sempre più carica di ipoteche morali e ideologiche. […] Il mondo non diventa migliore se privato della gioia, il mondo ha bisogno di persone che scoprono il bene, che sono capaci di provare gioia per esso e che in questo modo ricevono anche lo stimolo e il coraggio di fare il bene. […] Abbiamo bisogno di quella fiducia originaria che, ultimamente, solo la fede può dare. Che, alla fine, il mondo è buono, che Dio c'è ed è buono. Da qui deriva anche il coraggio della gioia, che diventa a sua volta impegno perché anche gli altri possano gioire e ricevere il lieto annuncio”. Umiltà vuol dire coraggio, il coraggio della gioia

Gioia e umiltà progrediscono o regrediscono di pari passo. Lo aveva ben colto Chesterton nel suo breve ma denso saggio del 1901 sull'umiltà: “Secondo la nuova filosofia dell'autostima e dell'autoaffermazione, l'umiltà è un vizio. […] Essa accompagna ogni grande gioia della vita con la precisione di un orologio. Nessuno per esempio è mai stato innamorato senza abbandonarsi a una vera e propria orgia di umiltà. […] Se oggi l'umiltà è stata screditata come virtù, non sarà del tutto superfluo osservare che questo discredito coincide con il grande regresso della gioia nella letteratura e nella filosofia contemporanee. […] Quando siamo genuinamente felici pensiamo di non meritare la felicità. Ma quando pretendiamo un'emancipazione divina, sembriamo avere la certezza assoluta di non meritare nulla”.

Gioia e umiltà, quindi. Le due stanno o cadono insieme. Manca un piccolo tassello intermedio che però è molto presente nell'uomo e nel papa bavarese: l'umorismo. Gioia e umorismo sono per Benedetto XVI strettamente collegati. Scrive a conclusione del suo saggio di teologia dogmatica “Il Dio di Gesù Cristo”: ”Una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiriti potrebbe essere dunque la seguente: dove manca la gioia, dove l'umorismo muore, qui non c'è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della grazia. Chi è profondamente sereno, chi ha sofferto senza per questo perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del Vangelo, dallo Spirito di Dio, che è lo Spirito della gioia eterna”.

Diceva Jacques Maritain che una società che perde il senso dell'umorismo si prepara il suo funerale. Umorismo come via per la gioia; il "sense of humour" come modo divertente (nel senso più sano del termine) di vivere la vita, partendo dal punto fondamentale: l'essenza del cristianesimo è la gioia. Per dirla con Chesterton, maestro di umorismo, “la gioia è il gigantesco segreto del cristiano”. Scrive Benedetto XVI in "Il sale della terra": “La fede dà la gioia. Se Dio non è qui, il mondo è una desolazione, e tutto diventa noioso, ogni cosa è del tutto insufficiente. […] L'elemento costitutivo del cristianesimo è la gioia. Gioia non nel senso di un divertimento superficiale, il cui sfondo può anche essere la disperazione”.

Se il mondo volta le spalle a Dio, ci dice il papa-teologo ex prefetto dell'ex Sant'Uffizio, non si condanna alla falsità, alla bestemmia e neanche all'eresia, ma alla noia. Viene in mente la battuta di Clive S. Lewis pronunciata quando ancora non si era convertito dall'ateismo al cristianesimo: “I cristiani hanno torto, ma tutti gli altri sono noiosi”.

mercoledì 11 aprile 2012

Il Papa non vuole la messa dei neocatecumenali



Quella strana messa che il papa non vuole

È la messa secondo il rito del Cammino neocatecumenale. Benedetto XVI ha ordinato alla congregazione per la dottrina della fede di esaminarlo a fondo. La sua condanna pare segnata.


Con una lettera autografa al cardinale William J. Levada, Benedetto XVI ha ordinato alla congregazione per la dottrina della fede di accertare se le messe dei neocatecumenali sono o no conformi alla dottrina e alla prassi liturgica della Chiesa cattolica. Un "problema", questo, che il papa giudica "di grande urgenza" per tutta la Chiesa. Benedetto XVI è da tempo in allarme per le modalità particolari con cui le comunità del Cammino neocatecumenale celebrano le loro messe, il sabato sera, in locali separati.

A far crescere in lui l'allarme è stata anche la trama ordita alle sue spalle in curia lo scorso inverno. Era accaduto che il pontificio consiglio per i laici presieduto dal cardinale Stanislaw Rylko aveva predisposto il testo di un decreto di approvazione globale di tutte le celebrazioni liturgiche ed extraliturgiche del Cammino neocatecumenale, da rendersi pubblico il 20 gennaio in occasione di un previsto incontro del papa con il Cammino. Il decreto era stato redatto su indicazione della congregazione per il culto divino, presieduta dal cardinale Antonio Cañizares Llovera. I fondatori e leader del Cammino, Francisco "Kiko" Argüello e Carmen Hernández, ne furono informati e anticiparono festanti ai loro seguaci l'imminente approvazione. Il tutto all'insaputa del papa.

Benedetto XVI venne a conoscenza del testo del decreto pochi giorni prima dell'incontro del 20 gennaio. Lo trovò sconclusionato e sbagliato. Ordinò che fosse cancellato e riscritto secondo le sue indicazioni. Infatti, il 20 gennaio, il decreto che fu promulgato si limitò ad approvare le cerimonie extraliturgiche che scandiscono le tappe catechistiche del Cammino. Il papa, nel suo discorso, mise in chiaro che solo queste erano convalidate. Mentre a proposito della messa impartì ai neocatecumenali una vera e propria lezione – quasi un ultimatum – su come celebrarla in piena fedeltà alle norme liturgiche e in effettiva comunione con la Chiesa.

In quegli stessi giorni Benedetto XVI ricevette in udienza il nuovo arcivescovo di Berlino, Rainer Maria Woelki, uomo di sua fiducia, che di lì a poco avrebbe fatto cardinale. Woelki gli parlò tra l'altro proprio delle difficoltà che i neocatecumenali creavano nella sua diocesi, con le loro messe separate del sabato sera, officiate da una trentina di sacerdoti appartenenti al Cammino. Il papa chiese a Woelki di fargli avere un appunto scritto sulla materia. Il 31 gennaio Woelki gli inviò una lettera con informazioni più dettagliate. Pochi giorni dopo, l'11 febbraio, il papa inoltrò copia di questa lettera alla congregazione per la dottrina della fede, assieme alla sua richiesta di esaminare al più presto la questione, che "concerne non soltanto l'arcidiocesi di Berlino". La commissione d'esame presieduta dalla congregazione per la dottrina della fede si sarebbe dovuta avvalere, secondo le indicazioni del papa, della collaborazione di altri due dicasteri vaticani: la congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e il pontificio consiglio per i laici.

E così è stato. Il 26 marzo, nel Palazzo del Sant'Uffizio, sotto la presidenza del segretario della congregazione per la dottrina della fede, l'arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, gesuita, si sono riuniti per un primo esame della questione i segretari degli altri due dicasteri – per il culto divino l'arcivescovo Augustine J. Di Noia, domenicano, e per i laici il vescovo Josef Clemens – e quattro esperti da loro designati. Un quinto esperto, assente, dom Cassiano Folsom, priore del monastero di San Benedetto a Norcia, inviò per iscritto il suo parere. I giudizi espressi sono stati tutti critici delle messe dei neocatecumenali. Molto severo è risultato anche quello che la stessa congregazione per la dottrina della fede aveva chiesto, prima della riunione, al teologo e neocardinale Karl J. Becker, gesuita, professore emerito alla Pontificia Università Gregoriana e consultore del dicastero. Il dossier predisposto per la riunione dalla congregazione per la dottrina della fede comprendeva la lettera del papa dell'11 febbraio, la lettera del cardinale Woelki al papa nell'originale tedesco e in versione inglese, il parere del cardinale Becker e una traccia per la discussione nella quale si metteva esplicitamente in dubbio la conformità alla dottrina e alla prassi liturgica della Chiesa cattolica dell'art. 13 § 2 dello statuto dei neocatecumenali, quello con cui essi giustificano le loro messe separate del sabato sera.

In realtà, il pericolo temuto da Benedetto XVI e da molti vescovi – come risulta dalle numerose denunce pervenute in Vaticano – è che le modalità particolari con cui le comunità neocatecumenali di tutto il mondo celebrano le loro messe introducano di fatto nella liturgia latina un nuovo "rito" artificialmente composto dai fondatori del Cammino, estraneo alla tradizione liturgica, carico di ambiguità dottrinali e fattore di divisione nella comunità dei fedeli. Alla commissione da lui voluta, il papa ha affidato il compito di accertare la fondatezza di questi timori. In vista di decisioni conseguenti. I giudizi elaborati dalla commissione saranno esaminati in una prossima riunione plenaria della congregazione per la dottrina della fede, un mercoledì – una "feria quarta" – della seconda metà di aprile.

sabato 7 aprile 2012

Sabato Santo, la grande apnea



dal blog di don Luigi Maria Epicoco

Oggi è sabato santo, ed è il giorno dell'impaziente attesa. E' il tempo in cui si trattiene il fiato prima di saltare, prima di riuscire da sott'acqua, prima di spalancare la porta e vedere chi c'è dentro. Normalmente quest'apnea dura qualche istante, la liturgia la prolunga per un intero giorno, mentre i Vangeli per ben tre giorni... La stessa apnea che Giona fece nella pancia della balena che lo aveva ingoiato, prima che lo vomitasse sulla spiaggia della sua vocazione.

Ma anche quest'apnea ha un gran ruolo in tutta questa storia. Non basta fare qualcosa o essere qualcuno, bisogna recuperare la vertigine emotiva di entrambe queste cose. Se non provi paura mista a speranza mentre fai qualcosa di importante allora forse non è veramente importante quella cosa. E' come se una donna partorisse un figlio senza provare nemmeno un frammento di un qualcosa che assomigli almeno lontanamente a un pò di paura e a un po di felicità. Bisogna avere paura della paura quando è sola, quando invece la paura è accompagnata dalla speranza, allora è solo adrenalina pura che ti fa trattenere il fiato prima di scoppiare in un gran pianto di gioia e stupore.

E' così che lo immagino il giorno in cui vedremo Cristo faccia a faccia. Per un intera vita forse abbiamo trattenuto il fiato, tormentati dalla paura che avevamo sbagliato tutto, ma anche coltivando la speranza che ne valeva la pena comunque. Si è cristiani quando accanto alla paura, che è una cosa umanissima, si ha il coraggio di lasciare sempre un posto di riguardo alla speranza. La resurrezione di Gesù altro non è che un buon motivo per cui non disperarsi mai veramente sino in fondo. La nostra vita è un lungo sabato santo che si incastona tra le nostre croci piantate nei venerdì santo della nostra vita, e l'alba della domenica di Pasqua dove l'assenza del cadavere ci ricorda che il finale è diverso da come sembrava a noi.

Ma ancora non è il momento di urlare di gioia. Siamo ancora in fila dietro le mirofore (le donne che andarano a ungere di profumo il corpo di Gesù), silenziosi, ansiosi e con il fiato sospeso di chi spera con tutto il cuore in un imprevisto...

Venerdì Santo a San Marco con il Patriarca


La Cappella della Reposizione


 S.E. Mons. Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni... 

Ecce lignum Crucis!

Ecce Agnus Dei, ecce qui tollis peccata mundi!

domenica 1 aprile 2012

Stendiamo innanzi a Cristo noi stessi!



Cari fratelli e sorelle, siano in particolare due i sentimenti di questi giorni: la lode, come hanno fatto coloro che hanno accolto Gesù a Gerusalemme con i loro «osanna»; ed il ringraziamento, perché in questa Settimana Santa il Signore Gesù rinnoverà il dono più grande che si possa immaginare: ci donerà la sua vita, il suo corpo e il suo sangue, il suo amore. Ma a un dono così grande dobbiamo rispondere in modo adeguato, ossia con il dono di noi stessi, del nostro tempo, della nostra preghiera, del nostro stare in comunione profonda d’amore con Cristo che soffre, muore e risorge per noi.

Gli antichi Padri della Chiesa hanno visto un simbolo di tutto ciò nel gesto della gente che seguiva Gesù nel suo ingresso in Gerusalemme, il gesto di stendere i mantelli davanti al Signore. Davanti a Cristo – dicevano i Padri – dobbiamo stendere la nostra vita, le nostre persone, in atteggiamento di gratitudine e di adorazione.

Riascoltiamo, in conclusione, la voce di uno di questi antichi Padri, quella di sant’Andrea, Vescovo di Creta: «Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio, di tutto lui stesso ... e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese ... per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell’anima, anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele"» (PG 97, 994). Amen!

Papa Benedetto XVI
Domenica delle Palme 2012