giovedì 27 ottobre 2011

Il "no" a Dio e la decadenza dell'uomo



"Se una tipologia fondamentale di violenza viene oggi motivata religiosamente, ponendo con ciò le religioni di fronte alla questione circa la loro natura e costringendo tutti noi ad una purificazione, una seconda tipologia di violenza dall’aspetto multiforme ha una motivazione esattamente opposta: è la conseguenza dell’assenza di Dio, della sua negazione e della perdita di umanità che va di pari passo con ciò. I nemici della religione – come abbiamo detto – vedono in questa una fonte primaria di violenza nella storia dell’umanità e pretendono quindi la scomparsa della religione. Ma il "no" a Dio ha prodotto crudeltà e una violenza senza misura, che è stata possibile solo perché l’uomo non riconosceva più alcuna norma e alcun giudice al di sopra di sé, ma prendeva come norma soltanto se stesso. Gli orrori dei campi di concentramento mostrano in tutta chiarezza le conseguenze dell’assenza di Dio.


Qui non vorrei però soffermarmi sull’ateismo prescritto dallo Stato; vorrei piuttosto parlare della "decadenza" dell’uomo, in conseguenza della quale si realizza in modo silenzioso, e quindi più pericoloso, un cambiamento del clima spirituale. L’adorazione di mammona, dell’avere e del potere, si rivela una contro-religione, in cui non conta più l’uomo, ma solo il vantaggio personale. Il desiderio di felicità degenera, ad esempio, in una brama sfrenata e disumana quale si manifesta nel dominio della droga con le sue diverse forme. Vi sono i grandi, che con essa fanno i loro affari, e poi i tanti che da essa vengono sedotti e rovinati sia nel corpo che nell’animo. La violenza diventa una cosa normale e minaccia di distruggere in alcune parti del mondo la nostra gioventù. Poiché la violenza diventa cosa normale, la pace è distrutta e in questa mancanza di pace l’uomo distrugge se stesso".

Benedetto XVI
Assisi, 27 ottobre 2011

sabato 22 ottobre 2011



O Dio, ricco di misericordia, che hai chiamato il beato Giovanni Paolo II, papa, a guidare l’intera tua Chiesa, concedi a noi, forti del suo insegnamento, di aprire con fiducia i nostri cuori alla grazia salvifica di Cristo, unico Redentore dell’uomo. Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

Orazione colletta
nella memoria liturgica del Beato

sabato 15 ottobre 2011

Palombella: un anno da Direttore



La Sistina non è un pezzo da museo
Coniugare una tradizione unica al mondo con la vocalità moderna. Questa la sfida principale che deve affrontare la Cappella Musicale Pontificia "Sistina", secondo il maestro Massimo Palombella, che da un anno la dirige. "Le acquisizioni tecniche del Novecento devono essere conosciute da chi fa questo lavoro, occorre inserire gradualmente il repertorio contemporaneo. La storia della musica non è finita e non potrà mai finire. Non si può ignorare la scuola francese del Novecento con tutto quello che ci ha consegnato, da Messiaen a Ravel, da Faurè a Poulenc o Duruflé".

Da dove siete partiti per realizzare questo progetto?

Per prima cosa abbiamo intensificato le prove, ora si prova quattro volte a settimana. Abbiamo un punto di partenza eccellente. I cantori sono venti, assunti a tempo indeterminato dalla Santa Sede, di livello artistico elevatissimo. Tra questi alcuni sono stati bambini cantori, anche perché quando si inserisce un elemento nuovo a parità di qualità si preferisce chi ha già acquisito le caratteristiche principali del modo di cantare della Cappella Sistina. Su queste basi occorre costruire un futuro che metta assieme una tradizione di cantabilità e declamazione del testo, che caratterizza la Sistina, con ciò che la vocalità del Novecento ci ha positivamente consegnato.

Cioè?

La precisione dell'intonazione, in particolare, favorita da ciò che di scientifico oggi sappiamo, per esempio sull'intonazione delle terze e delle quinte. L'attenzione all'articolazione interna del testo e alla sua declamazione, specialmente sul modo di affrontare vocali e consonanti. La chiarezza del fraseggio al quale attenersi in modo assoluto e scrupoloso sia per rendere l'idea della frase musicale, sia per la corretta declamazione. Per ultimo il mantenimento dell'intonazione durante l'articolazione del testo. Per fare questo si può fare riferimento anche a ciò che nel mondo sta avvenendo riguardo alla vocalità. Occorre uscire da un'implicita autoreferenzialità della Cappella e guardarsi intorno. Gli inglesi, come in altri termini i tedeschi e anche la tarda scuola francese, hanno da insegnarci molto circa la precisione dell'intonazione, dell'articolazione del testo e del fraseggio. Possiamo non condividere il loro modo di cantare, che di fatto non appartiene alla tradizione "latina" di canto, ma va riconosciuto che quegli atteggiamenti sono coerenti nella loro scelta estetica e questo, da musicisti, non possiamo che lodarlo. Rischiamo altrimenti di fare della nostra comprensione estetica l'unica possibile. I cd di Palestrina registrati dal Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da Roberto Gabbiani, ad esempio, realizzano una interpretazione che possiamo non condividere per diversi motivi, ma bisogna onestamente riconoscere una disarmante coerenza interna, una maniacale ricerca della precisione dell'intonazione. Occorre in sostanza avere l'onestà di riconoscere una precisa "scelta estetica" che non può non essere apprezzata e assunta come modello metodologico (la stessa cosa si può dire per Westminster Abbey, Tallis Scholars e altri gruppi). In sostanza senza un sano confronto non esiste una vera crescita culturale-artistica e si corre il rischio di erigere a modello segmenti di storia che possono invece rappresentare - considerati in un'ampia arcata storica e in una doverosa comprensione sinottica - momenti di decadenza.

Quindi metodo scientifico e tradizione esecutiva antica?

La Sistina deve avere un vastissimo repertorio che comprenda quello che ha caratterizzato la sua storia. In concerto, in particolare, deve eseguire quello che nessuna altra cappella musicale può vantare. Noi possiamo cantare opere che Palestrina ha scritto per noi. Se andiamo a fare un concerto non possiamo proporre quello che proporrebbe un coro di parrocchia, ma dobbiamo programmare brani polifonici da cinque voci in su. Questo repertorio antico deve essere l'"ordinario" della Cappella, deve essere frequentato continuamente e deve diventare un corpus importante. Per questo nell'agosto scorso abbiamo assemblato un libro di studio che contiene mottetti, offertori e composizioni latine di Palestrina, in poche parole l'identità della Cappella. E questo repertorio va anche utilizzato continuamente nelle celebrazioni. In particolare gli offertori.

Quali in particolare?

Proprio quelli di Palestrina, l'unico compositore che ha musicato tutti gli offertori dell'anno liturgico. Per questo noi, a ogni celebrazione papale, cantiamo un offertorio palestriniano. E lo dobbiamo fare con le caratteristiche che ci contraddistinguono da sempre: canto "in voce", mai in falsetto, che serve a riempire i grandi spazi nei quali siamo chiamati a cantare, e perfetta declamazione del testo, per garantire la comprensibilità della Parola. È un dovere, se non lo facciamo noi non lo fa nessuno. 

E poi?

A questo va altrettanto doverosamente coniugata un'apertura assoluta al repertorio internazionale. In Inghiltera, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania c'è una produzione di musica liturgica contemporanea importante. Queste cose vanno gradualmente metabolizzate, proprio perché la Sistina sia un punto di riferimento internazionale, che esprima nel suo operare la cattolicità della Chiesa. È in stampa a questo scopo un libro di studio nel quale saranno inseriti brani di repertorio che vanno dall'inizio del Novecento a oggi. Non so ancora come li collocheremo nelle celebrazioni o in concerto, ma sono certo che faccia bene ai cantori frequentare autori come Duruflé, Schnitzel, Fauré, Perosi, Refice, Molfino, Bettinelli, Bianchi, Poulenc, Dupré, Gorecki, Lauridsen, Stanford e molti altri. Dobbiamo farlo per evitare che la Cappella Musicale Pontificia diventi un pezzo da museo.

martedì 4 ottobre 2011

Non tutti i vescovi sono di buona volontà...


Ovvero democrazia e (dis)obbedienza verso Roma in materia liturgica. Ecco un interessante articolo di Sandro Magister sulle traduzioni della nuova edizione del Messale italiano (...che aspettiamo da dieci anni ormai, ma si sa, i nostri Vescovi hanno cose ben più importanti da fare...).


«Gli italiani sono in prima fila nel disubbidire a Roma, per quanto riguarda la traduzione delle parole della consacrazione. Tedeschi e austriaci seguono a ruota. E anche nelle traduzioni del Padre nostro e del Gloria c'è disaccordo 

In questi giorni in tutte le parrocchie e chiese degli Stati Uniti sta arrivando la nuova versione inglese del Messale Romano, che verrà utilizzata a partire dalla prossima prima domenica di Avvento, il 27 novembre.
Numerose e molto dibattute le variazioni rispetto al precedente Messale. Ma il cambiamento che ha suscitato maggiori dispute è certamente quello che riguarda le parole della consacrazione del vino, là dove nella versione latina si legge: "Hic est enim calix sanguinis mei […] qui pro vobis et pro multis effundetur". Il "pro multis" di questa formula nelle traduzioni in lingua volgare del postconcilio è stato generalmente tradotto con "per tutti": traduzione che non solo non rispettava la lettera dell’originale latino, a sua volta derivato da testi evangelici, ma ha ingenerato anche un sottile ma vivace dibattito teologico.

Per ovviare a questi problemi, nell’ottobre 2006 ai presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo è stata inviata una lettera, su "indirizzo" di Benedetto XVI, dalla congregazione per il culto divino allora presieduta dal cardinale Francis Arinze. In essa si chiedeva di tradurre il "pro multis" con "per molti". Cosa che hanno fatto gli episcopati d’Ungheria (da "mindenkiért" a "sokakért") e di vari paesi d’America latina (da "por todos" a "por muchos"), che si accinge a fare l'episcopato spagnolo, e che ha fatto, non senza vivacissime discussioni anche tra vescovi, l’episcopato degli Stati Uniti (da "for all" a "for many"). Quanto agli episcopati di Germania e di Austria, in essi si registrano forti resistenze al passaggio dal "fur alle" al "fur viele".

Per quanto riguarda l’Italia, l’argomento è stato affrontato dai vescovi nel corso dell'assemblea plenaria della conferenza episcopale tenuta ad Assisi nel novembre del 2010, nel corso dell’esame dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
In quella occasione, tra i vescovi italiani si è manifestata una massiccia riluttanza a introdurre il "per molti". Nel corso dei lavori, infatti, si è insistito sul fatto che le conferenze episcopali delle singole regioni erano già state "unanimi" nello scegliere la versione "per tutti". E quando i vescovi dell'Italia intera sono stati chiamati a votare su questo punto specifico del Messale il risultato è stato questo: su 187 votanti, oltre a una scheda bianca, ci sono stati 171 voti a favore di mantenere il "per tutti", 4 per introdurre la versione "per la moltitudine" (calco da "pour la multitude" in vigore nel Messale francese), e appena 11 per il "per molti" richiesto dalla Santa Sede nel 2006.

Nella stessa riunione i vescovi italiani votarono anche a favore di due cambiamenti nel Padre nostro e nel Gloria.
Per il Padre nostro, nel corso di una duplice votazione, i vescovi hanno dapprima scartato l’ipotesi di mantenere la frase "non ci indurre in tentazione"; questa frase infatti ha raccolto solo 24 voti su 184 votanti, meno delle due che poi sono andate in ballottaggio: "non abbandonarci alla tentazione" (87 voti) e "non abbandonarci nella tentazione" (62 voti). Di queste due, la più votata nel ballottaggio è risultata infine la prima, con 111 suffragi contro 68.
Per quanto riguarda il Gloria, su 187 votanti, 151 hanno approvato la variazione "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama", al posto di quella attualmente in uso "Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà", che ha ottenuto 36 suffragi.
A proposito di questi stessi testi, i vescovi degli Stati Uniti hanno preferito non toccare il Padre nostro, lasciando inalterata la frase "and lead us not into temptation", linguisticamente più fedele al latino "et ne nos inducas in tentationem".
Mentre per quanto riguarda il Gloria hanno scelto di cambiare le parole "and peace to his people on earth" in "and on earth peace to people of good will", anche in questo caso seguendo testualmente l’originale latino "et in terra pax hominibus bonae voluntatis"».