mercoledì 26 dicembre 2012

La santa curiosità e la santa gioia del Natale



«I pastori si affrettavano. Una santa curiosità e una santa gioia li spingevano. Tra noi forse accade molto raramente che ci affrettiamo per le cose di Dio. Oggi Dio non fa parte delle realtà urgenti. Le cose di Dio, così pensiamo e diciamo, possono aspettare. Eppure Egli è la realtà più importante, l’Unico che, in ultima analisi, è veramente importante. Perché non dovremmo essere presi anche noi dalla curiosità di vedere più da vicino e di conoscere ciò che Dio ci ha detto? Preghiamolo affinché la santa curiosità e la santa gioia dei pastori tocchino in quest’ora anche noi, e andiamo quindi con gioia di là, a Betlemme – verso il Signore che anche oggi viene nuovamente verso di noi. Amen».

Papa Benedetto XVI
24.12.2012

mercoledì 12 dicembre 2012

Il primo tweet del Papa!


«Cari amici, è con gioia che mi unisco a voi via twitter.
Grazie per la vostra generosa risposta.
Vi benedico tutti di cuore».

Papa Benedetto XVI
12 dicembre 2012, ore 11.35

domenica 9 dicembre 2012

L'Immacolata: il silenzio, la grazia, la gioia



Cari fratelli e sorelle!

E’ sempre una gioia speciale radunarci qui, in Piazza di Spagna, nella festa di Maria Immacolata. Ritrovarci insieme – romani, pellegrini e visitatori – ai piedi della statua della nostra Madre spirituale, ci fa sentire uniti nel segno della fede. Mi piace sottolinearlo in questo Anno della fede che tutta la Chiesa sta vivendo. Vi saluto con grande affetto e vorrei condividere con voi alcuni semplici pensieri, suggeriti dal Vangelo di questa solennità: il Vangelo dell’Annunciazione.

Anzitutto, ci colpisce sempre, e ci fa riflettere, il fatto che quel momento decisivo per il destino dell’umanità, il momento in cui Dio si fece uomo, è avvolto da un grande silenzio. L’incontro tra il messaggero divino e la Vergine Immacolata passa del tutto inosservato: nessuno sa, nessuno ne parla. E’ un avvenimento che, se accadesse ai nostri tempi, non lascerebbe traccia nei giornali e nelle riviste, perché è un mistero che accade nel silenzio. Ciò che è veramente grande passa spesso inosservato e il quieto silenzio si rivela più fecondo del frenetico agitarsi che caratterizza le nostre città, ma che – con le debite proporzioni – si viveva già in città importanti come la Gerusalemme di allora. Quell’attivismo che ci rende incapaci di fermarci, di stare tranquilli, di ascoltare il silenzio in cui il Signore fa sentire la sua voce discreta. Maria, quel giorno in cui ricevette l’annuncio dell’Angelo, era tutta raccolta e al tempo stesso aperta all’ascolto di Dio. In lei non c’è ostacolo, non c’è schermo, non c’è nulla che la separi da Dio. Questo è il significato del suo essere senza peccato originale: la sua relazione con Dio è libera da qualsiasi pur minima incrinatura; non c’è separazione, non c’è ombra di egoismo, ma una perfetta sintonia: il suo piccolo cuore umano è perfettamente «centrato» nel grande cuore di Dio. Ecco, cari fratelli, venire qui, presso questo monumento a Maria, nel centro di Roma, ci ricorda prima di tutto che la voce di Dio non si riconosce nel frastuono e nell’agitazione; il suo disegno sulla nostra vita personale e sociale non si percepisce rimanendo in superficie, ma scendendo ad un livello più profondo, dove le forze che agiscono non sono quelle economiche e politiche, ma quelle morali e spirituali. E’ lì che Maria ci invita a scendere e a sintonizzarci con l’azione di Dio.

C’è una seconda cosa, ancora più importante, che l’Immacolata ci dice quando veniamo qui, ed è che la salvezza del mondo non è opera dell’uomo – della scienza, della tecnica, dell’ideologia – ma viene dalla Grazia. Che significa questa parola? Grazia vuol dire l’Amore nella sua purezza e bellezza, è Dio stesso così come si è rivelato nella storia salvifica narrata nella Bibbia e compiutamente in Gesù Cristo. Maria è chiamata la «piena di grazia» (Lc 1,28) e con questa sua identità ci ricorda il primato di Dio nella nostra vita e nella storia del mondo, ci ricorda che la potenza d’amore di Dio è più forte del male, può colmare i vuoti che l’egoismo provoca nella storia delle persone, delle famiglie, delle nazioni e del mondo. Questi vuoti possono diventare degli inferni, dove la vita umana viene come tirata verso il basso e verso il nulla, perde di senso e di luce. I falsi rimedi che il mondo propone per riempire questi vuoti – emblematica è la droga – in realtà allargano la voragine. Solo l’amore può salvare da questa caduta, ma non un amore qualsiasi: un amore che abbia in sé la purezza della Grazia - di Dio che trasforma e rinnova - e che così possa immettere nei polmoni intossicati nuovo ossigeno, aria pulita, nuova energia di vita. Maria ci dice che, per quanto l’uomo possa cadere in basso, non è mai troppo in basso per Dio, il quale è disceso fino agli inferi; per quanto il nostro cuore sia sviato, Dio è sempre «più grande del nostro cuore» (1 Gv 3,20). Il soffio mite della Grazia può disperdere le nubi più nere, può rendere la vita bella e ricca di significato anche nelle situazioni più disumane.

E da qui deriva la terza cosa che ci dice Maria Immacolata: ci parla della gioia, quella gioia autentica che si diffonde nel cuore liberato dal peccato. Il peccato porta con sé una tristezza negativa, che induce a chiudersi in se stessi. La Grazia porta la vera gioia, che non dipende dal possesso delle cose ma è radicata nell’intimo, nel profondo della persona, e che nulla e nessuno possono togliere. Il Cristianesimo è essenzialmente un «evangelo», una «lieta notizia», mentre alcuni pensano che sia un ostacolo alla gioia, perché vedono in esso un insieme di divieti e di regole. In realtà, il Cristianesimo è l’annuncio della vittoria della Grazia sul peccato, della vita sulla morte. E se comporta delle rinunce e una disciplina della mente, del cuore e del comportamento è proprio perché nell’uomo c’è la radice velenosa dell’egoismo, che fa male a se stessi e agli altri. Bisogna dunque imparare a dire no alla voce dell’egoismo e a dire sì a quella dell’amore autentico. La gioia di Maria è piena, perché nel suo cuore non c’è ombra di peccato. Questa gioia coincide con la presenza di Gesù nella sua vita: Gesù concepito e portato in grembo, poi bambino affidato alle sue cure materne, quindi adolescente e giovane e uomo maturo; Gesù visto partire da casa, seguito a distanza con fede fino alla Croce e alla Risurrezione: Gesù è la gioia di Maria ed è la gioia della Chiesa, di tutti noi.

In questo tempo di Avvento, Maria Immacolata ci insegni ad ascoltare la voce di Dio che parla nel silenzio; ad accogliere la sua Grazia, che ci libera dal peccato e da ogni egoismo; per gustare così la vera gioia. Maria, piena di grazia, prega per noi!

Benedetto XVI
8 dicembre 2012

mercoledì 31 ottobre 2012

Papa Luciani: "Senza timori e calcoli umani, con la fortezza degli umili!"



Venezia ha ricordato martedì 30 ottobre il centenario della nascita di Albino Luciani, già Patriarca della diocesi lagunare prima di diventare nel 1978, e per soli 33 giorni, Papa Giovanni Paolo I. E lo ha fatto con un doppio appuntamento: innanzitutto alle ore 18.00, nella basilica cattedrale di S. Marco, la S. Messa presieduta dal Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia insieme ai vescovi della Conferenza episcopale triveneta; subito dopo, alle ore 20.30, il concerto di musica sacra offerto dalla Procuratoria della Basilica di San Marco, dall'Istituto Polacco di Roma e dalla Fondazione Capella Cracoviensis di Cracovia con il contributo del Ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia e della Città di Cracovia. Il programma del concerto prevedeva le composizioni di due tra i massimi esponenti della scuola veneziana del XVII secolo: Giovanni Gabrieli, compositore, organista e maestro di cappella della Basilica di San Marco del quale ricorrono i 400 anni dalla morte (1612) e Mikolaj Zielenski, compositore, organista e maestro di cappella legato alla Collegiata di Lowicz (sede del Primate polacco). Le composizioni di Mikolaj Zielenski verranno presentate per la prima volta nella Basilica di San Marco dopo la loro pubblicazione avvenuta nel 1611 nell’officina di Giacomo Vincenti a Venezia. Ad eseguire il concerto è stato il Collegium Zielenski diretto da Stanislaw Galonski, uno dei massimi esperti nel campo dell'esecuzione e promozione della musica antica, insieme a Joel Frederiksen (basso profondo) e ai solisti dell’ensemble Collegium Zielenski.


Ecco alcuni passaggi dell riflessione del Patriarca Moraglia che, nell'omelia, ha così tratteggiato la figura di Albino Luciani: “Ma chi era questo figlio della terra veneta che divenne patriarca di Venezia e sommo pontefice della Chiesa cattolica? Albino Luciani fu un sincero e onesto lavoratore della vigna del Signore, uomo profondamente obbediente a Dio e al Suo progetto, chiamato a compiti e decisioni davvero ardue. Annunziare il Vangelo senza rinnegarlo, stare di fronte al mondo senza temerlo e senza scendere a compromessi, presiedere a una comunità cristiana ferita nella comunione, senza cedere alla tentazione di conquistarsi una facile notorietà, significa infatti caricarsi della propria parte di sofferenza. A Venezia il ricordo del patriarca Luciani è ancora vivo nel popolo di Dio e, col passare del tempo, l’affetto si unisce alla crescente stima per la sua santità: è quanto, con piacere, ho potuto constatare di persona fino ad ora. Nel messaggio d’inizio pontificato Giovanni Paolo I ha espresso in modo compiuto il suo pensiero sulla Chiesa vista come corpo vivo, realtà comunionale ed evangelizzatrice. Parlò agli uomini e alle donne di Chiesa chiamandoli, semplicemente, figli e domandò di prendere coscienza della loro responsabilità e superare, così, le tensioni interne ponendoli in guardia dalla tentazione di uniformarsi al mondo, non ricercando il facile applauso ed esortandoli con forza affinché diano testimonianza della propria fede davanti al mondo. Il fermo richiamo a prendere le distanze dalla tentazione d’uniformarsi al mondo spiega quello che fu il suo costante stile di prete, vescovo e papa. Siamo di fronte non a un generico appello all’unità ma all’effettiva comunione ecclesiale costruita attorno a Gesù Cristo e al suo Vangelo, prendendo le distanze da mediazioni che svuotano il Vangelo e portano il cristiano ad essere il “notaio” di quanto, di volta in volta, gli viene proposto. Ma così facendo si svuota il buon annuncio del Vangelo… Per quanto riguarda la breve ma densa apparizione di Luciani sulla cattedra di Pietro osservo che gli avvenimenti non ricevono senso solo dalla durata; hanno significato per ciò che rappresentano in se stessi e per la forza con cui sono capaci di generare futuro. Avvenimenti improvvisi possono produrre novità sostanziali mentre avvenimenti di lunga durata non è detto che riescano a generare novità. Come il classico “sasso” gettato nello stagno, al pontificato di Paolo VI - il cardinale italiano Giovanni Battista Montini che, per oltre trent’anni, era stato a servizio della Curia romana -, faceva seguito il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, il cardinale italiano Albino Luciani, uomo del tutto estraneo alla Curia, e all’inizio non certamente tra i più accreditati candidati. Il pontificato di Giovanni Paolo I, anomalo per la sua brevità, va considerato proprio per tale fatto un inizio, un’antifona che, nella continuità della storia della Chiesa, segna una vera ripartenza. Con l’elezione a Papa del patriarca di Venezia, nato a Canale d’Agordo, di fatto mai uscito - se non per qualche breve viaggio - dal natìo Veneto e privo di ogni dimestichezza con la Curia, veniva “azzerato” uno schema che, agli occhi di molti, era ritenuto insuperabile. Per taluni Albino Luciani sarebbe stato, alla fine, solo un ingenuo e un semplice, un intransigente e una persona non all’altezza, non in grado di dire no ad un peso per lui eccessivo… Eppure in Giovanni Paolo I l’umiltà e l’obbedienza vissuta personalmente - e solo dopo chiesta agli altri -, il sincero amore a Cristo e alla Chiesa evidenziano pienamente l’animo della persona. Luciani s’impegnò sempre in un annuncio evangelico compiuto nella Chiesa e a nome della Chiesa, senza timori e calcoli umani: è questa la fortezza degli umili!”.


lunedì 22 ottobre 2012

Benedetto XVI e il fanone


«Il sacro non va mai in museo»

«Il sacro non va mai in museo». Risponde senza alcuna esitazione e con grande chiarezza don Nicola Bux all’obiezione che la scelta di Benedetto XVI di indossare paramenti ormai desueti possa offrire l’immagine di un Pontefice antiquato che ama gli abiti da museo. Amico di lunga data di Joseph Ratzinger, che nel 1997 presentò il suo libro “Il quinto sigillo”, Bux è consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e delle Cause dei Santi e dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie.
Proprio in quest’ultima veste ha lavorato alle modifiche alla liturgia papale che i fedeli e non solo di tutto il mondo hanno potuto notare, domenica scorsa, in occasione della canonizzazione di sette nuovi beati presieduta da Benedetto XVI. Un Papa liturgicamente inedito, quello che si è mostrato agli occhi di coloro che assistevano al rito in piazza San Pietro o lo seguivano in diretta televisiva. Papa Ratzinger, infatti, per la prima volta dall’inizio del suo pontificato, ha indossato il fanone papale, un paramento ormai desueto, utilizzato l’ultima volta, quasi trent’anni fa, da Giovanni Paolo II.

Don Nicola Bux perché Benedetto XVI ha indossato il fanone papale?
«Il fanone, si indossa sulla pianeta, ed è formato da due mozzette sovrapposte l’una all’altra; quella inferiore è più lunga di quella superiore. È di stoffa bianca e aurea, a lunghe linee perpendicolari, separate da una striscia amaranto o rossa. Sul petto sta una croce ricamata in oro».

Qual è il significato liturgico del fanone papale?
«Simboleggia lo scudo della fede (cfr. Efesini 6,16) che protegge la Chiesa cattolica, rappresentata dal Papa. Le fasce verticali di colore oro e argento, rappresentano l’unità e l’indissolubilità della Chiesa latina e orientale».

Per la prima volta, domenica scorsa, il rito della canonizzazione è stato anticipato prima dell’inizio della Messa. Era successo anche con il concistoro per la creazione dei nuovi cardinali a febbraio e, ancora prima, con il canto della Calenda la notte di Natale. Qual è il motivo di queste scelte?
«La ragione è di far cogliere sempre meglio la differenza tra ciò che appartiene al rito eucaristico della Messa e ciò che invece vi è aggiunto eccezionalmente. Oggi sempre più si tende a infarcire la Messa di altri riti o a fare commistioni indebite o a sovrapporvi frequentemente altri riti sacramentali. Tutto ciò finisce per non far percepire ai fedeli i contorni del Sacrificio Eucaristico, come dei singoli sacramenti e sacramentali, inducendo a ridurre la Messa a un palinsesto da riempire a piacimento».

Non c’è il rischio che agli occhi dei credenti e di tutto il mondo l’immagine del Papa con indosso vesti liturgiche desuete o le continue modifiche nella struttura dei riti da lui presieduti possano far apparire Benedetto XVI un Pontefice antiquato che ama indossare abiti da museo?
«Nessun rischio, ma il segnale che nella Chiesa c’è continuità di magistero: ciò che era sacro rimane sacro. L’indumento indossato per la prima volta da Benedetto XVI in questa canonizzazione, è stato indossato da Giovanni Paolo II come da Paolo VI, da Giovanni XXIII come da Pio XII. Quel che oggi si deve tornare a comprendere è che i paramenti liturgici non seguono le mode umane ma vogliono rendere gloria a Dio. I sacerdoti e i vescovi fino al Papa sono ministri cioè servi - il Papa è servus servorum Dei - quindi dinanzi alla Maestà divina devono presentarsi col massimo della dignità. La ricchezza dei paramenti ne è il segno sebbene mai abbastanza adeguato, e vi deve corrispondere la purezza del cuore e la castità del corpo, come scrive san Francesco nella Lettera ai Fedeli. Il sacro non va mai in museo. La corsa odierna alla musealizzazione della suppellettile sacra ha del patologico, quando non è giustificata dal motivo di salvaguardarne la conservazione. I paramenti sono in gran parte frutto di donativi del popolo di Dio per conferire splendore al culto divino. La modifica della struttura dei riti corrisponde all’esigenza di restaurare quanto si è deformato per l’usura del tempo o il cedimento alle mode del momento, onde permettere ai riti di esprimere più chiaramente la lex credendi della Chiesa. A differenza della beatificazione, la canonizzazione per esempio, è un atto solenne del magistero pontificio, che dichiara ex cathedra, cioè in modo infallibile, che alcuni suoi figli godono sicuramente della visione beatifica di Dio nel Paradiso, e possono essere invocati come intercessori e additati come esempi per tutta la Chiesa e non solo per le Chiese particolari».

domenica 14 ottobre 2012

Voci dal Sinodo - La Divina Misericordia


La misericordia di Dio - Cor ad cor loquitur

L’Instrumentum laboris presenta la situazione dell’uomo contemporaneo come quella di un “prigioniero di un mondo che ha praticamente espunto la questione di Dio dal proprio orizzonte”. La nuova evangelizzazione - afferma il documento - dovrebbe osare di ripristinare questa domanda su Dio ed aiutare l’uomo ad uscire dal “deserto interiore” (cfr. n. 86). 
Nasce la domanda di come far uscire l’uomo da questo deserto. Una cosa è certa. Non basta la scienza. Non bastano i documenti. Non bastano le nostre strutture ecclesiastiche. Esse, come tali, non raggiungono ancora il cuore dell'uomo. 
Segno caratteristico dei nostri tempi è che la Chiesa oggi parla in modo più efficace quando si esprime col messaggio della Divina Misericordia. Sembra che questo discorso tocchi maggiormente il cuore dell’uomo chiuso in se stesso, impelagato nel peccato ed in un’apparente autosufficienza, ma invece in cerca di senso della vita e di motivi di speranza. 
La Chiesa di Cracovia è il luogo e il centro privilegiato in cui nel secolo passato - segnato dal dominio di sistemi totalitari atei e come tali disumani - si fece sentire l’invocazione della misericordia. Dio si è servito di un’umile religiosa, santa Faustina Kowalska, come pure di un saggio e santo pastore, il cardinale Karol Wojtyla - Giovanni Paolo II, perché l’eterna verità su Dio “ricco di misericordia” (Ef 2, 4) risuonasse in modo più rilevante nell’agitato mondo di oggi. “L'umanità non troverà pace finché non tornerà alla fonte della misericordia”, che è in Gesù (Suor Faustina, Diario, n. 699). Pare che l’uomo di oggi sia riuscito a salvare in sé la sensibilità per una misericordia disinteressata. E proprio essa - la misericordia di Dio che si china sulla sua sorte - è in grado di farsi sentire e di toccare le corde più profonde del cuore umano. 
La devozione alla Divina Misericordia è diventata un metodo di formazione di cristiani zelanti e responsabili. 
Ne parlo e ne do testimonianza per indicare una delle vie comprovate nei nostri tempi attraverso la quale possiamo intraprendere la nuova evangelizzazione. Cor ad cor loquitur. Il cuore di Dio misericordioso parla al cuore dell' uomo. 

 S. Em. R. Card. Stanisław DZIWISZ,
Arcivescovo di Kraków

sabato 13 ottobre 2012

Voci dal Sinodo - Il fondamento dell'essere cristiani



Il fondamento dell'essere cristiani

La nuova evangelizzazione si presenta come un progetto pastorale che impegnerà la Chiesa nei prossimi decenni. E' urgente che prima del “fare” si possa ritrovare il fondamento del nostro “essere” cristiani in modo che la NE non sia sperimentata come un'aggiunta in un momento di crisi, ma come la costante missione della Chiesa. Si deve coniugare esigenza di unità, per andare oltre la frammentarietà, con la ricchezza delle tradizioni ecclesiali e culturali. Unità di un progetto pastorale, non equivale a uniformità di realizzazione; indica, piuttosto, l'esigenza di un linguaggio comune e di segni partecipati che fanno emergere il cammino di tutta la Chiesa più che l'originalità di una esperienza particolare. Si deve motivare perchè in un periodo di transizione epocale come il nostro, segnato da una crisi generale, è richiesto a noi oggi di vivere in modo straordinario la nostra ordinaria vita ecclesiale. Dobbiamo saper presentare la novità che Gesù Cristo e la Chiesa rappresentano nella vita delle persone. L'uomo di oggi, invece, non percepisce più l'assenza di Dio come una mancanza per la propria vita. L'ignoranza dei contenuti basilari della fede si coniuga con una forma di presunzione che non ha precedenti. In che modo si puo esprimere la novità di Gesù Cristo in un mondo impregnato di sola cultura scientifica, modellato sulla superficialità di contenuti effimeri, e insensibile alla proposta della Chiesa? Annunciare il Vangelo equivale a cambiare vita; ma l'uomo di oggi sembra legato a questo tipo di vita di cui si sente il padrone perchè decide quando, come e chi deve nascere e morire. Le nostre comunità, forse, non presentano più i tratti che consentono di riconoscerci come portatori di una bella notizia che trasforma. Esse appaiono stanche, ripetitive di formule obsolete che non comunicano la gioia dell'incontro con Cristo e sono incerte sul cammino da intraprendere. Ci siamo rinchiusi in noi stessi, mostriamo un'autosufficienza che impedisce di accostarci come una comunità viva e feconda che genera vocazioni, tanto abbiamo burocratizzato la vita di fede e sacramentale. In una parola, non si sa più che essere battezzati equivale a essere evangelizzatori. Incapaci di essere propositivi del Vangelo, deboli nella certezza della verità che salva, e cauti nel parlare perchè oppressi dal controllo del linguaggio, abbiamo perso credibilità e rischiamo di rendere vana la Pentecoste. Non ci serve in questo momento la nostalgia per i tempi passati né l'utopia per inseguire sogni; piuttosto, un'analisi lucida che non nasconde le difficoltà e neppure il grande entusiasmo di tutte le esperienze che in questi anni hanno permesso di attuare la NE.

S. E. R. Mons. Salvatore FISICHELLA,
Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione


Voci dal Sinodo - Il sacramento della penitenza



Il Sacramento della Penitenza è il Sacramento della Nuova Evangelizzazione

Il grande predicatore americano, il Venerabile Arcivescovo Fulton J. Sheen, ha osservato “la prima parola di Gesù è stata ‘venite’; l’ultima parola di Gesù è stata ‘andate’”
La Nuova Evangelizzazione ci ricorda che gli autentici operatori di evangelizzazione devono prima essere evangelizzati.
San Bernardo ha detto, “se volete essere un canale, dovete prima essere un serbatoio”.
Perciò credo che il sacramento più importante della Nuova Evangelizzazione sia il sacramento della penitenza, e ringrazio Papa Benedetto per avercelo ricordato.
Sì, i sacramenti dell’iniziazione... Battesimo, Confermazione, Eucaristia... obbligano, sfidano e forniscono del necessario gli operatori dell’evangelizzazione.
Ma il sacramento della riconciliazione evangelizza gli evangelizzatori, perché ci mette sacramentalmente in contatto con Gesù che ci chiama alla conversione del cuore e ci ispira ad accogliere il suo invito a pentirsi.
Il Concilio Vaticano II ha fatto appello a un rinnovamento del sacramento della penitenza, purtroppo e con tristezza quello che abbiamo ottenuto invece è stata la sparizione del sacramento.
Così ci siamo impegnati a chiedere la riforma delle strutture, dei sistemi, delle istituzioni, della gente diversa da noi. Sì, questo è positivo.
Ma la risposta alla domanda “cosa c’è di sbagliato nel mondo?” non è la politica, l’economia, il secolarismo, l’inquinamento, il riscaldamento globale... no. Come scrisse Chesterton “La risposta alla domanda ‘cosa c’è di sbagliato nel mondo?’sono due parole: sono io”.
Sono io! Ammetterlo porta alla conversione del cuore e alla penitenza, fulcro dell’invito evangelico. Ciò accade nel sacramento della penitenza.
È questo il sacramento della Nuova Evangelizzazione.

S. Em. R. Card. Timothy Michael DOLAN,
Arcivescovo di New York

venerdì 12 ottobre 2012

Voci dal Sinodo dei Vescovi


L'umiltà, il silenzio, il rispetto della Chiesa

Una ragazza ha chiesto: “Siamo noi giovani che ci siamo persi o è la Chiesa ad averci perduti?”. La sua domanda esprime il desiderio di una Chiesa in cui Gesù possa trovarla e in cui lei possa trovare lui. Ma per poter essere lo “spazio” per un incontro di fede con il Signore, la Chiesa deve imparare di nuovo da Gesù, nel quale incontriamo Dio.
La Chiesa deve imparare l’umiltà da Gesù. La forza e la potenza di Dio appaiono nello svuotamento di sé del Figlio, nell’amore che viene crocifisso ma che salva davvero perché viene svuotato di sé per gli altri.
La Chiesa è chiamata a imitare il rispetto di Gesù per ogni persona umana. Egli ha difeso la dignità di tutti, in particolare di quanti sono trascurati e disprezzati dal mondo. Amando i suoi nemici, egli ha affermato la loro dignità.
La Chiesa deve scoprire la forza del silenzio. Confrontata con il dolore, con i dubbi e con le incertezze delle persone, non può fingere di offrire soluzioni semplici. In Gesù il silenzio diventa la via dell’ascolto attento, della compassione e della preghiera. È la via verso la verità.
Le società in apparenza indifferenti e prive di obiettivi del presente stanno davvero cercando Dio. L’umiltà, il rispetto e il silenzio della Chiesa potrebbero rivelare in modo più chiaro il volto di Dio in Gesù. Il mondo trae gioia dal semplice fatto che testimoniamo Gesù, mite e umile di cuore.

S. E. R. Mons. Luis Antonio G. TAGLE,
Arcivescovo di Manila

venerdì 6 luglio 2012

Papa Luciani, la beatificazione e il centenario



Luciani, verso il centenario

di Francesco Dal Mas 

Cade il 17 ottobre di quest'anno il centenario della nascita, a Forno di Canale, di Albino Luciani. Sarà il vescovo di Vittorio Veneto, Monsignor Corrado Pizziolo, a celebrare l'evento, a Canale d'Agordo (così oggi si chiama Forno), presiedendo una solenne concelebrazione, in occasione, fra l'altro, del pellegrinaggio della diocesi di cui monsignor Albino Luciani è stato vescovo per 10 anni.

Ma il prossimo 17 ottobre segnerà anche una tappa fondamentale del processo di beatificazione. Quel giorno, infatti, il postulatore monsignor Enrico Dal Covolo consegnerà la "positio" al cardinale Angelo Amato, che presiede la Congregazione per le cause dei santi. Lo ha detto lo stesso prelato ad Agordo, il 29 giugno, al termine della solenne concelebrazione in occasione dei santi Pietro e Paolo. «Il 17 ottobre, nel centenario della nascita di Albino Luciani, assieme alla collaboratrice Stefania Falasca, consegnerò ufficialmente al cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione per la causa dei santi, la "positio" relativa al "Servo di Dio" Giovanni Paolo I», ha detto testualmente Dal Covolo, rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense.

«La positio - ha poi spiegato - è un dossier consistente in due grossi volumi rossi: il primo raccoglie le testimonianze sulla vita e le virtù di Luciani, mentre il secondo è incentrato soprattutto sulla storia del personaggio. In tali opere si trovano attestati al meglio l'eroicità e le virtù di Giovanni Paolo I che saranno quindi esaminati a due livelli: dagli esperti della Congregazione e successivamente dai membri della stessa. Se l'esito di tale esame - ha proseguito monsignor Dal Covolo - sarà positivo, come sono certo, allora il Papa autorizzerà l'attribuzione del titolo di "venerabile". Il processo proseguirà quindi sulla completa verifica del miracolo, sigillo dell'iter, già avviato molto bene, per cui entro pochi anni il vostro illustre conterraneo salirà all'onore degli altari come beato».

Secondo l'arciprete di Agordo, monsignor Giorgio Lise, che ha avuto modo di riflettere con Dal Covolo sulla tempistica, essendo stato lui stesso vice postulatore, saranno necessari altri due anni di approfondimenti prima della beatificazione. Nelle settimane scorse, invece, s'era diffusa la notizia che Benedetto XVI avrebbe desiderato chiudere l'Anno della fede con la beatificazione sia di Luciani che di papa Montini. E il cardinale Saraiva Martins, predecessore di Amato, aveva risposto a una nostra domanda - lo avevamo incontrato a Canale - che la beatificazione in tempi così rapidi sarebbe stata possibile. Anzi, ci aggiunse che lui stesso sperava in un evento contemporaneo: Luciani e Montini insieme sugli altari. Bisognerà, invece, avere un attimo di pazienza. 

Canale d'Agordo, intanto, è meta di un continuo pellegrinaggio. Si prevedono quest'estate almeno 50 mila fedeli. Numerose le iniziative intraprese dalla parrocchia, dalla Fondazione e dal Comune. Ben 75 i libri dei visitatori riempiti, in 10 anni, di firme, di preghiere, di richieste di grazie e di ringraziamenti. La maggior parte di chi invoca la protezione di Luciani o la sua intercessione è per avere una famiglia sicura, unita, con dei figli, che spesso non arrivano, seppur tanto desiderati. Ma ecco che dopo qualche tempo le stesse firme si ripetono, per ringraziare il "papa del sorriso" perché la grazia è arrivata. Situazioni di devozione popolare molto semplice, che fioriscono e maturano indipendentemente dai paletti che qualcuno vorrebbe erigere. 

martedì 29 maggio 2012

Le carte rubate del Papa. Parla Mons. Becciu



A colloquio con il sostituto della Segreteria di Stato, l’Arcivescovo Angelo Becciu

L'Osservatore Romano, 30 maggio 2012

Amarezza e dispiacere per quanto è accaduto negli ultimi giorni in Vaticano, ma anche determinazione e fiducia nell’affrontare una situazione francamente difficile. Sono questi i sentimenti che si avvertono nel sostituto della Segreteria di Stato — l’arcivescovo Angelo Becciu, che per il suo ufficio ogni giorno lavora a stretto contatto con il Pontefice — durante un colloquio con «L’Osservatore Romano» sul tema che attira l’attenzione di moltissimi media in tutto il mondo, e cioè l’arresto, il 23 maggio scorso, di Paolo Gabriele, aiutante di camera di Benedetto XVI, per il possesso di un gran numero di documenti riservati appartenenti al Papa. Cosa dire dello stato d’animo di chi lavora nella Santa Sede? «Con le persone incontrate in queste ore — risponde il sostituto — ci siamo guardati negli occhi e certo vi ho letto sconcerto e preoccupazione, ma ho visto anche decisione nel continuare il servizio silenzioso e fedele verso il Papa». Un atteggiamento che si respira ogni giorno nella vita degli uffici della Santa Sede e del piccolo mondo vaticano, ma che ovviamente non fa notizia nel diluvio mediatico scatenatosi a seguito dei gravi e per molti versi sconcertanti fatti di questi giorni. In questo contesto, monsignor Becciu misura con attenzione le parole per sottolineare «l’esito positivo» dell’indagine, anche se si tratta di un esito amaro. Le reazioni in tutto il mondo, poi, per un verso giustificate, dall’altro «preoccupano e rattristano per le modalità dell’informazione, che scatenano fantasie senza alcuna rispondenza nella realtà».

Si poteva reagire con più rapidità e completezza? 

Vi è stato, vi è e vi sarà un rispetto rigoroso delle persone e delle procedure previste dalle leggi vaticane. Non appena accertato il fatto, il 25 maggio la Sala Stampa della Santa Sede ha diffuso la notizia, anche se è stato uno choc per tutti e questo ha creato un po’ di smarrimento. Del resto l’indagine è ancora in corso.

Come ha trovato Benedetto XVI?

Addolorato. Perché, stando a quanto sinora si è potuto appurare, qualcuno a lui vicino sembra responsabile di comportamenti ingiustificabili sotto ogni profilo. Certo, prevale nel Papa la pietà per la persona coinvolta. Ma resta il fatto che l’atto da lui subito è brutale: Benedetto XVI ha visto pubblicate carte rubate dalla sua casa, carte che non sono semplice corrispondenza privata, bensì informazioni, riflessioni, manifestazioni di coscienza, anche sfoghi che ha ricevuto unicamente in ragione del proprio ministero. Per questo il Pontefice è particolarmente addolorato, anche per la violenza subita dagli autori delle lettere o degli scritti a lui indirizzati.

Può formulare un giudizio su quanto avvenuto? 

Considero la pubblicazione delle lettere trafugate un atto immorale di inaudita gravità. Soprattutto, ripeto, perché non si tratta unicamente di una violazione, già in sé gravissima, della riservatezza alla quale chiunque avrebbe diritto, quanto di un vile oltraggio al rapporto di fiducia tra Benedetto XVI e chi si rivolge a lui, fosse anche per esprimere in coscienza delle proteste. Ragioniamo: non sono state semplicemente rubate delle carte al Papa, si è violentata la coscienza di chi a lui si rivolge come al vicario di Cristo, e si è attentato al ministero del successore dell’apostolo Pietro. In parecchi documenti pubblicati, ci si trova in un contesto che si presume di totale fiducia. Quando un cattolico parla al Romano Pontefice, è in dovere di aprirsi come se fosse davanti a Dio, anche perché si sente garantito dalla assoluta riservatezza.

Si è voluta giustificare la pubblicazione dei documenti in base a criteri di pulizia, trasparenza, riforma della Chiesa.

I sofismi non portano molto lontano. I miei genitori mi hanno insegnato non solo a non rubare, ma a non accettare mai cose rubate da altri. Mi sembrano principi semplici, forse per qualcuno troppo semplici, ma certo è che quando qualcuno li perde di vista, facilmente smarrisce se stesso e porta anche altri alla rovina. Non vi può essere rinnovamento che calpesti la legge morale, magari in base al principio che il fine giustifica i mezzi, un principio che tra l’altro non è cristiano.

E cosa rispondere a chi rivendica il diritto di cronaca?

Penso che in questi giorni, da parte dei giornalisti, insieme al dovere di dare conto di quanto sta avvenendo, ci dovrebbe essere anche un sussulto etico, cioè il coraggio di una presa di distanza netta dall’iniziativa di un loro collega che non esito a definire criminosa. Un po’ di onestà intellettuale e di rispetto della più elementare etica professionale non farebbe certo male al mondo dell’informazione.

Secondo diversi commenti le carte pubblicate rivelerebbero un mondo torbido all’interno della Chiesa, in particolare della Santa Sede. 

Dietro ad alcuni articoli mi pare di trovare un’ipocrisia di fondo. Da una parte si accusa il carattere assolutista e monarchico del governo centrale della Chiesa, dall’altra ci si scandalizza perché alcuni scrivendo al Papa esprimono idee o anche lamentele sull’organizzazione del governo stesso. Molti documenti pubblicati non rivelano lotte o vendette, ma quella libertà di pensiero che invece si rimprovera alla Chiesa di non permettere. Insomma, non siamo mummie, e i diversi punti di vista, persino le valutazioni contrastanti sono piuttosto normali. Se qualcuno si sente incompreso ha tutto il diritto di rivolgersi al Pontefice. Dov’è lo scandalo? Obbedienza non significa rinunciare ad avere un proprio giudizio, ma manifestare con sincerità e sino in fondo il proprio parere, per poi adeguarsi alla decisione del superiore. E non per calcolo, ma per adesione alla Chiesa voluta da Cristo. Sono elementi basilari della visione cattolica. 

Lotte, veleni, sospetti: è davvero così il Vaticano? 

Io quest’ambiente non lo percepisco e spiace che del Vaticano si abbia un’immagine tanto deformata. Ma questo ci deve far riflettere, e stimolare tutti noi a impegnarci a fondo per far trasparire una vita più improntata al Vangelo. 

Cosa dire insomma ai cattolici e a quanti guardano comunque con interesse alla Chiesa? 

Ho parlato del dolore di Benedetto XVI, ma devo dire che nel Papa non viene meno la serenità che lo porta a governare la Chiesa con determinazione e chiaroveggenza. Si sta per aprire a Milano l’incontro mondiale delle famiglie. Saranno giornate di festa dove si respirerà la gioia di essere Chiesa. Facciamo nostra la parabola evangelica che Papa Benedetto ci ha ricordato pochi giorni fa: il vento si abbatte sulla casa, ma questa non crollerà. Il Signore la sostiene e non vi saranno tempeste che potranno abbatterla.

mercoledì 23 maggio 2012

Il Papa sta con la squadra che vince. E brinda.




A mezzogiorno di lunedì 21 maggio, nella Sala Ducale del Palazzo Apostolico, Benedetto XVI ha pranzato con i cardinali, per ringraziarli degli auguri al suo doppio compleanno, di nascita e di elezione al papato.

Al brindisi, il papa ha impartito ai presenti una lezione di agostiniana teologia della storia, molto realistica, contro il male “anche mascherato col bene”, ma anche molto ottimistica, grato per “l’amicizia” dei cardinali presenti.

A rassicurarlo, ha detto, è il sapere di stare “nella squadra vittoriosa”. Che non è il suo Bayern di Monaco, fresco di sconfitta nella finale della Champions League, ma l’imbattibile “squadra del Signore”.

Ecco le sue parole:

“Cari fratelli, in questo momento la mia parola può solo essere una parola di ringraziamento. Ringraziamento innanzitutto al Signore per i tanti anni che mi ha concesso; anni con tanti giorni di gioia, splendidi tempi, ma anche notti oscure. Ma in retrospettiva si capisce che anche le notti erano necessarie e buone, motivo di ringraziamento.

“Oggi la parola ‘ecclesia militans’ è un po’ fuori moda, ma in realtà possiamo comprendere sempre meglio che è vera, porta in sé verità. Vediamo come il male vuole dominare nel mondo e che è necessario entrare in lotta contro il male. Vediamo come lo fa in tanti modi, cruenti, con le diverse forme di violenza, ma anche mascherato col bene e proprio così distruggendo le fondamenta morali della società.

“Sant’Agostino ha detto che tutta la storia è una lotta tra due amori: amore di se stesso fino al disprezzo di Dio; amore di Dio fino al disprezzo di sé, nel martirio. Noi siamo in questa lotta e in questa lotta è molto importante avere degli amici. E per quanto mi riguarda, io sono circondato dagli amici del collegio cardinalizio: sono i miei amici e mi sento a casa, mi sento sicuro in questa compagnia di grandi amici, che stanno con me e tutti insieme col Signore.

“Grazie per questa amicizia. [...] Grazie a voi per la comunione delle gioie e dei dolori. Andiamo avanti, il Signore ha detto: coraggio, ho vinto il mondo. Siamo nella squadra del Signore, quindi nella squadra vittoriosa. Grazie a voi tutti. Il Signore vi benedica tutti. E brindiamo”.

giovedì 3 maggio 2012

Ancora sul "pro multis": la lettera del Papa ai Vescovi tedeschi



Lo scrive Benedetto XVI ai vescovi tedeschi. E vuole che in tutta la Chiesa si rispettino le parole di Gesù nell'ultima cena, senza inventarne altre come nei messali postconciliari. Il testo integrale della lettera del papa.

dal sito di Sandro Magister


Eccellenza! Reverendo, caro arcivescovo!

In occasione della sua visita, il 15 marzo 2012, ella mi ha messo a conoscenza del fatto che, per quanto riguarda la traduzione delle parole "pro multis" nella preghiera del canone della santa messa, tra i vescovi dell'area di lingua tedesca tuttora non esiste consenso. A quanto pare incombe il pericolo che, nella nuova edizione del "Gotteslob", la cui pubblicazione è attesa presto, alcune parti dell'area linguistica tedesca desiderino mantenere la traduzione "per tutti", sebbene la conferenza episcopale tedesca sia d'accordo nello scrivere "per molti", così come auspicato dalla Santa Sede.
Le ho promesso di pronunciarmi per iscritto in merito a tale importante questione, per prevenire una simile divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. Provvederò a fare inviare questa lettera, che attraverso di lei indirizzo a tutti i membri della conferenza episcopale tedesca, anche agli altri vescovi dell'area di lingua tedesca. Permettetemi qualche breve parola su come è sorto il problema.

Negli anni Sessanta, quando il messale romano, sotto la responsabilità dei vescovi, dovette essere tradotto in lingua tedesca, esisteva un consenso esegetico sul fatto che il termine "i molti", "molti", in Isaia 53, 11 s., fosse una forma espressiva ebraica per indicare l'insieme, "tutti". La parola "molti" nei racconti dell'istituzione di Matteo e di Marco era pertanto considerata un semitismo e doveva essere tradotta con "tutti". Ciò venne esteso anche alla traduzione del testo latino, dove "pro multis", attraverso i racconti evangelici, rimandava a Isaia 53 e quindi doveva essere tradotto con "per tutti".

Tale consenso esegetico nel frattempo si è sgretolato; non esiste più. Nel racconto dell'ultima cena della traduzione unificata tedesca della Sacra Scrittura si legge: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti" (Mc 14, 24; cfr. Mt 26, 28). Ciò rende evidente una cosa molto importante: la traduzione di "pro multis" con "per tutti" non è stata una traduzione pura, bensì un'interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione.

Questa fusione fra traduzione e interpretazione per certi versi fa parte dei principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei testi liturgici nelle lingue moderne. Si era ben consapevoli di quanto la Bibbia e i testi liturgici fossero distanti dal mondo del linguaggio e del pensiero attuale della gente, per cui anche tradotti avrebbero continuato ad essere incomprensibili per quanti partecipavano alle funzioni. Un rischio nuovo era il fatto che, attraverso la traduzione, i testi sacri sarebbero stati aperti, lì, davanti a quanti partecipavano alla messa, e tuttavia sarebbero rimasti molto distanti dal loro mondo, ed anzi questa distanza sarebbe diventata più che mai visibile. Quindi non ci si sentì solo autorizzati, ma addirittura obbligati a immettere l'interpretazione nella traduzione, così da abbreviare il cammino verso le persone, i cui cuori e le cui menti dovevano essere raggiunti da quelle parole.

In una certa misura il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale dei testi fondamentali continua ad essere giustificato. Poiché pronuncio spesso le preghiere liturgiche nelle varie lingue, noto che talvolta tra le diverse traduzioni quasi non si riscontrano somiglianze e che il testo comune sulle quali si basano spesso è solo lontanamente riconoscibile. Allo stesso tempo si sono verificate delle banalizzazioni che costituiscono vere perdite. Così, nel corso degli anni, io stesso ho compreso sempre più chiaramente che, come orientamento per la traduzione, il principio della corrispondenza non letterale, bensì strutturale, ha i suoi limiti.

Seguendo queste intuizioni, l'istruzione per i traduttori "Liturgiam authenticam", promulgata il 28 marzo 2001 dalla congregazione per il culto divino, ha messo nuovamente in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza naturalmente prescrivere un verbalismo unilaterale.

L'importante intuizione che sta alla base di questa istruzione è la distinzione, già citata all'inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia per le parole della Scrittura, sia per i testi liturgici. Da un lato, la sacra Parola deve emergere il più possibile per se stessa, anche con la sua estraneità e con le domande che reca in sé. Dall'altro, alla Chiesa è affidato il compito dell'interpretazione affinché – nei limiti della nostra rispettiva comprensione – ci giunga il messaggio che il Signore ci ha destinato.

Anche la traduzione più accurata non può sostituire l'interpretazione: fa parte della struttura della Rivelazione il fatto che la Parola di Dio venga letta nella comunità interpretante della Chiesa, che la fedeltà e l'attualizzazione si leghino tra loro. La Parola deve essere presente per se stessa, nella sua forma propria, a noi forse estranea; l'interpretazione deve essere misurata in base alla sua fedeltà alla Parola, ma al tempo stesso deve renderla accessibile a chi l'ascolta oggi. 

In tale contesto, la Santa Sede ha deciso che nella nuova traduzione del messale l'espressione "pro multis" debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. La traduzione interpretativa "per tutti" deve essere sostituita dalla semplice traduzione "per molti". Vorrei ricordare che sia in Matteo sia in Marco non c'è l'articolo, quindi non "per i molti", bensì "per molti".

Se dal punto di vista della correlazione fondamentale fra la traduzione e l'interpretazione questa scelta è, come spero, del tutto comprensibile, sono però consapevole che essa rappresenta una sfida immensa per tutti coloro ai quali è affidato il compito di spiegare la Parola di Dio nella Chiesa. Per chi normalmente frequenta la messa, ciò appare quasi inevitabilmente come una frattura al centro stesso del rito sacro. Domanderà: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può farlo, le è permesso? È all'opera una reazione che vuole distruggere l'eredità del Concilio?

Grazie all'esperienza degli ultimi cinquant'anni, tutti noi sappiamo quanto profondamente la modifica delle forme e dei testi liturgici colpisca l'anima delle persone; e quindi quanto un cambiamento in un punto così centrale del testo debba inquietare le persone. Proprio per questo, quando davanti alla differenza fra traduzione e interpretazione si scelse la traduzione "molti", si stabilì anche che nelle diverse aree linguistiche la traduzione dovesse essere preceduta da una catechesi accurata, con la quale i vescovi dovevano spiegare concretamente ai loro sacerdoti, e tramite loro ai fedeli, di che cosa si trattava. Questa catechesi previa è il presupposto essenziale per l'entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto mi risulta, nell'area di lingua tedesca una tale catechesi finora non c'è stata. La mia lettera intende essere una richiesta pressante a tutti voi, cari confratelli, a preparare ora una tale catechesi, per poi parlarne con i vostri sacerdoti e al contempo renderla accessibile ai fedeli. 

In questa catechesi bisogna anzitutto chiarire brevemente perché nella traduzione del messale, dopo il concilio, la parola "molti" è stata resa con "tutti": per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l'universalità della salvezza che giunge da lui. Allora, però, sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell'ultima cena egli ha detto "per molti"? E perché allora insistiamo su queste parole di Gesù dell'istituzione?

Prima di tutto, a questo punto bisogna ancora precisare che secondo Matteo e Marco Gesù ha detto "per molti", mentre secondo Luca e Paolo ha detto "per voi". Ciò sembra stringere ancora di più il cerchio. Ma proprio a partire da qui ci si può avvicinare alla soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù trascende loro e il loro gruppo; che egli è venuto per riunire insieme i figli di Dio di tutto il mondo che erano dispersi (Gv 11, 52). Le parole "per voi" rendono però la missione di Gesù molto concreta per i presenti. Essi non sono un qualche elemento anonimo di un insieme immenso, bensì ognuno di loro sa che il Signore è morto proprio per lui, per noi. "Per voi" si protende nel passato e nel futuro, si rivolge a me personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti e amati come tali da Gesù. Quindi questo "per voi" non è un restringimento, bensì una concretizzazione che vale per ogni comunità che celebra l'eucaristia, che la unisce in modo concreto all'amore di Gesù. Il canone romano ha unito tra loro le due espressioni bibliche nelle parole di consacrazione e quindi dice: "per voi e per molti". Questa formula, poi, con la riforma liturgica è stata adottata per tutte le preghiere eucaristiche. 

Però di nuovo: perché "per molti"? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, come Figlio di Dio fatto uomo, sia l'uomo per tutti gli uomini, il nuovo Adamo, è una delle certezze fondamentali della nostra fede. Vorrei a questo riguardo ricordare solo tre versi delle Scritture. Dio "ha dato per tutti noi" il proprio Figlio, dice Paolo nella lettera ai Romani (8, 32). "Uno è morto per tutti", afferma nella seconda lettera ai Corinzi a proposito della morte di Gesù (5, 14). Gesù "ha dato se stesso in riscatto per tutti", si legge nella prima lettera a Timoteo (2, 6).

Ma allora bisogna davvero domandare ancora una volta: se questo è tanto ovvio, perché la preghiera eucaristica dice "per molti"? Ora, la Chiesa ha tratto questa formulazione dai racconti dell'istituzione nel Nuovo Testamento. La usa per rispetto della parola di Dio, per essergli fedele fin nella parola. È il timore reverenziale dinanzi alla stessa parola di Gesù la ragione della formulazione della preghiera eucaristica. Allora, però, domandiamo: perché Gesù ha detto così? La ragione vera consiste nel fatto che Gesù in tal modo si è fatto riconoscere come il servo di Dio di Isaia 53, che egli si è rivelato come la figura annunciata dalla profezia. Il timore reverenziale della Chiesa davanti alla parola di Dio, la fedeltà di Gesù alle parole della "Scrittura": è questa doppia fedeltà il motivo concreto della formulazione "per molti". In questa catena di riverente fedeltà, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura. 

Come prima abbiamo visto che il "per voi" della tradizione paolino-lucana non restringe ma rende concreto, così ora possiamo riconoscere che la dialettica tra "molti" e "tanti" ha una sua importanza. "Tutti" si muove sul piano ontologico: l'essere e l'agire di Gesù comprende l'intera umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l'eucaristia egli giunge solo a "molti". Si può quindi riconoscere un triplice significato dell'attribuzione di "molti" e "tutti".

Anzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, deve significare sorpresa, gioia e gratitudine per essere stati chiamati, per poter stare con lui e per poterlo conoscere. "Siano rese grazie al Signore che, per la sua grazia, mi ha chiamato nella sua Chiesa...".

Poi, però, in secondo luogo ciò è anche una responsabilità. La forma in cui il Signore raggiunge gli altri – "tutti" – a modo suo, in fondo rimane un suo mistero. Tuttavia, è indubbiamente una responsabilità essere chiamati direttamente da lui alla sua mensa per poter sentire: per voi, per me egli ha sofferto. I molti hanno la responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sopra il monte, lievito per tutti. È questa una vocazione che riguarda ognuno in modo del tutto personale. I molti, che noi siamo, devono avere la responsabilità per l'insieme, nella consapevolezza della loro missione.

Infine può aggiungersi un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto "molti", bensì molto pochi, una piccola massa che continua a diminuire. E invece no, siamo "molti": "Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Siamo molti e rappresentiamo tutti. Quindi le parole "molti" e "tutti" vanno insieme e fanno riferimento l'una all'altra nella responsabilità e nella promessa. 

Eccellenza, caro confratello nell'episcopato! Con tutto questo ho voluto accennare le linee fondamentali della catechesi, con la quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati al più presto alla nuova traduzione. Auspico che tutto ciò possa servire anche a una partecipazione più intensa alla celebrazione della sacra eucaristia, inserendosi in tal modo nel grande impegno che dovremo affrontare con l'"Anno della Fede". Posso sperare che la catechesi venga presto preparata e in tal modo diventi parte del rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio ha lavorato sin dalla sua prima sessione.

Con i saluti pasquali di benedizione, suo nel Signore.

Benedictus PP XVI

14 aprile 2012

domenica 29 aprile 2012

"Fiat voluntas tua": un pensiero del Beato Toniolo



"Fiat, fiat voluntas tua!"

"Oh mio Dio! Dunque la conoscenza e l'adempimento della vostra volontà è il fine della nostra vita quaggiù, è il compendio di tutti i nostri doveri; è l'obbiettivo e il termine dì ogni giustizia di ogni perfezione; è l'argomento d'ogni nostra gloria e d'ogni nostra felicità. Oh! Mio Dio, lasciate dunque che io vi faccia una preghiera che tutte le altre riassume, la preghiera che voi mio sovrano, mio padre, mio maestro, mi avete insegnato: fìat, fìat voluntas tua!

Oh! Sapientissima, o sovrana, o benignissima, o dolcissima volontà del mio Dio, quanto meritate di essere ricercata con semplicità di cuore, con fervore di desideri, con slancio di affetti, ricevuta e custodita con umiltà e gratitudine, eseguita con diligenza, generosità, instancabile operosità e perseveranza. Oh, in ciò consiste il dovere e la virtù della carità: perché che cosa è amore, fuorché l'aderire della volontà dell'amante alla volontà dell'amato, sicché di essi due per mezzo della volontà si effettui una ineffabile unione?"

Beato Giuseppe Toniolo

venerdì 27 aprile 2012

"Pro multis": la spiegazione nel libro di Benedetto XVI



tratto da korazym.org

La lettera che Papa Benedetto XVI ha recentemente inviato all’episcopato tedesco riapre una antica disputa interpretativa riguardante la corretta traduzione delle parole che il sacerdote pronuncia durante la consacrazione eucaristica. Nello spezzare il pane il presbitero ripete le parole di Gesù: «Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi», nel consacrare il vino viene poi detto: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». L’annotazione suggerita dal Pontefice riguarda quest’ultimo passaggio della formula eucaristica, “versato per voi e per tutti”, dove l’espressione latina «pro multis» fu tradotta in italiano «per tutti».

Apparentemente i due termini non sembrano registrare una particolare distinzione. Benedetto XVI però nel suo ultimo libro “Gesù di Nazaret "Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione” spiega il valore pastorale di questa importante precisazione. Nei Vangeli di Marco e Matteo, infatti, dall’originale testo greco “upèr pollôn” (Mc 14, 24) e “perì pollôn” (Mt 26, 28) si traduce letteralmente con “per molti”. Fu il teologo Joachim Jeremias – orientalista ed esegeta tedesco – che cercò di dimostrare che la parola “molti” nell’Antico Testamento indica “la totalità” e che si potrebbe tradurre con “tutti”. Questa tesi – scrive Benedetto XVI nel suo libro – “si è allora presto affermata ed è divenuta una comune convinzione teologica. In base ad essa, nelle parole della consacrazione, il «molti» è stato tradotto in diverse lingue con «tutti». «Versato per voi e per tutti»”. Nel frattempo, però, – ricorda ancora il Pontefice – questa valutazione esegetica è stata nuovamente messa in discussione, e si ritiene che il termine “molti” (pur significando la totalità) non possa essere semplicemente equiparato con l’utilizzo del termine “tutti”. Tale esplicitazione non ha incontrato però il favore di tutti i vescovi, alcuni dei quali vedono in questa particolare sottolineatura il rischio (utilizzando il termine molti) di escludere alcuni dalla salvezza operata da Cristo, e il timore che i fedeli non capiscano il nuovo testo o lo interpretino esclusivamente nel senso di una “restrizione” del numero dei salvati.

Benedetto XVI ha scritto così una lettera all’episcopato tedesco – che ha recentemente tradotto in tedesco “fuer alle” (per tutti) e non più letteralmente, “fuer viele” (per molti) – per spiegare che in questa particolare e originaria traduzione l’«universalità» della salvezza non può essere messa in discussione, così come ricorda San Paolo quando scrive che Gesù «è morto per tutti». Il Pontefice riporta nella lettera i contenuti teologici già proposti nel suo ultimo libro su Gesù di Nazaret, dove, riprendendo le sottolineature di alcuni teologi, chiarisce quanto segue: “secondo la struttura linguistica del testo, l’«essere versato» non si riferisce al sangue, ma al calice; «si tratterebbe quindi di un attivo ‘versare’ del sangue dal calice, un atto in cui la stessa vita divina è donata abbondantemente, senza alcuna allusione all'agire di carnefici » (Gregorianum 89, p. 507). La parola sul calice quindi non alluderebbe all'evento della morte in croce e al suo effetto, ma all'atto sacramentale, e così si chiarirebbe anche la parola «molti»: mentre la morte di Gesù vale «per tutti», la portata del Sacramento è più limitata. Esso raggiunge molti, ma non tutti (cfr in particolare p. 511)”. Ma il problema della parola «molti» – precisa il Papa nel suo libro –, tuttavia, con ciò è spiegato solo in parte. “Che cosa, dunque, dobbiamo dire? – prosegue Benedetto XVI – Mi sembra presuntuoso e insieme sciocco, voler scrutare la coscienza di Gesù e volerla spiegare in base a ciò che Egli, secondo la nostra conoscenza di quei tempi e delle loro concezioni teologiche, può aver pensato o non pensato.

Possiamo solo dire che Egli sapeva che nella sua persona si compiva la missione del Servo di YHWH e quella del Figlio dell'uomo - per cui il collegamento tra i due motivi comporta allo stesso tempo un superamento della limitazione della missione del Servo di YHWH, una universalizzazione che indica una nuova vastità e profondità”. Benedetto XVI, nel testo della sua lettera ai vescovi tedeschi, invita a preparare sacerdoti e fedeli a questa modifica del Messale Romano: “Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l’entrata in vigore della nuova traduzione”. In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei, nel corso della prossima assemblea prevista per il mese di maggio, concluderà la discussione sul nuovo messale. Qualcuno ripeterà – c’è da scommetterci –, come da manzoniana memoria, le parole che il giovane Renzo rivolse al suo curato: «Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?». Qualcun altro – con le parole di don Abbondio – risponderà: «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa»!

lunedì 16 aprile 2012

Benedetto XVI: "il coraggio della gioia"!



"La gioia profonda del cuore
è anche il vero presupposto dello 'humour';
e così lo 'humour', sotto un certo aspetto,
è un indice, un barometro della fede".

- Benedetto XVI -

di Andrea Monda, via chiesa.espressoline.it


Non ho fatto un esame accurato, ma sono pronto a scommettere che se si analizzassero le ricorrenze verbali all'interno dei testi di Benedetto XVI, la parola più presente sarebbe “gioia”.

Partiamo da una delle tantissime sue affermazioni sull'importanza, per il cristiano, della gioia e proviamo ad applicarla a questo papa che si presentò appena eletto come "umile lavoratore nella vigna del Signore". È una frase tratta dal libro-intervista "Luce del mondo" e, posta quasi in apertura, suona categorica: “Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore, questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva un'esistenza vissuta sempre e soltanto 'contro' sarebbe insopportabile”. 

Primo punto: gioia e ragione sono collegati. E il collegamento si trova in questa strana religione che “allarga gli orizzonti”. Scriveva Gilbert K. Chesterton parlando della sua conversione: “Diventare cattolici allarga la mente” e, più avanti: “Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.

Secondo punto, a sorpresa: ci eravamo forse abituati all'idea di un papa rivoluzionario, di un papa "contro”, ed ecco che arriva subito la smentita, perché non si può vivere “sempre e soltanto 'contro'”.

Ovviamente la contrapposizione è solo apparente. Nella stessa frase, più avanti, infatti il papa precisa:  “Ma allo stesso tempo ho sempre avuto presente, anche se in misura diversa, che il Vangelo si trova in opposizione a costellazioni potenti. […] Sopportare attacchi e opporre resistenza quindi fa parte del gioco; è una resistenza, però tesa a mettere in luce ciò che vi è di positivo”.

Resistenza, dunque, che vuol dire abbandono di ogni rassegnazione, lamento o risentimento, e cammino di ricerca paziente e tenace di “ciò che vi è di positivo”, di quella bontà che è nascosta nelle pieghe della storia degli uomini. È questo il coraggio di Benedetto, il coraggio della gioia: “La gioia semplice, genuina, è divenuta più rara. La gioia è oggi in certo qual modo sempre più carica di ipoteche morali e ideologiche. […] Il mondo non diventa migliore se privato della gioia, il mondo ha bisogno di persone che scoprono il bene, che sono capaci di provare gioia per esso e che in questo modo ricevono anche lo stimolo e il coraggio di fare il bene. […] Abbiamo bisogno di quella fiducia originaria che, ultimamente, solo la fede può dare. Che, alla fine, il mondo è buono, che Dio c'è ed è buono. Da qui deriva anche il coraggio della gioia, che diventa a sua volta impegno perché anche gli altri possano gioire e ricevere il lieto annuncio”. Umiltà vuol dire coraggio, il coraggio della gioia

Gioia e umiltà progrediscono o regrediscono di pari passo. Lo aveva ben colto Chesterton nel suo breve ma denso saggio del 1901 sull'umiltà: “Secondo la nuova filosofia dell'autostima e dell'autoaffermazione, l'umiltà è un vizio. […] Essa accompagna ogni grande gioia della vita con la precisione di un orologio. Nessuno per esempio è mai stato innamorato senza abbandonarsi a una vera e propria orgia di umiltà. […] Se oggi l'umiltà è stata screditata come virtù, non sarà del tutto superfluo osservare che questo discredito coincide con il grande regresso della gioia nella letteratura e nella filosofia contemporanee. […] Quando siamo genuinamente felici pensiamo di non meritare la felicità. Ma quando pretendiamo un'emancipazione divina, sembriamo avere la certezza assoluta di non meritare nulla”.

Gioia e umiltà, quindi. Le due stanno o cadono insieme. Manca un piccolo tassello intermedio che però è molto presente nell'uomo e nel papa bavarese: l'umorismo. Gioia e umorismo sono per Benedetto XVI strettamente collegati. Scrive a conclusione del suo saggio di teologia dogmatica “Il Dio di Gesù Cristo”: ”Una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiriti potrebbe essere dunque la seguente: dove manca la gioia, dove l'umorismo muore, qui non c'è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della grazia. Chi è profondamente sereno, chi ha sofferto senza per questo perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del Vangelo, dallo Spirito di Dio, che è lo Spirito della gioia eterna”.

Diceva Jacques Maritain che una società che perde il senso dell'umorismo si prepara il suo funerale. Umorismo come via per la gioia; il "sense of humour" come modo divertente (nel senso più sano del termine) di vivere la vita, partendo dal punto fondamentale: l'essenza del cristianesimo è la gioia. Per dirla con Chesterton, maestro di umorismo, “la gioia è il gigantesco segreto del cristiano”. Scrive Benedetto XVI in "Il sale della terra": “La fede dà la gioia. Se Dio non è qui, il mondo è una desolazione, e tutto diventa noioso, ogni cosa è del tutto insufficiente. […] L'elemento costitutivo del cristianesimo è la gioia. Gioia non nel senso di un divertimento superficiale, il cui sfondo può anche essere la disperazione”.

Se il mondo volta le spalle a Dio, ci dice il papa-teologo ex prefetto dell'ex Sant'Uffizio, non si condanna alla falsità, alla bestemmia e neanche all'eresia, ma alla noia. Viene in mente la battuta di Clive S. Lewis pronunciata quando ancora non si era convertito dall'ateismo al cristianesimo: “I cristiani hanno torto, ma tutti gli altri sono noiosi”.

mercoledì 11 aprile 2012

Il Papa non vuole la messa dei neocatecumenali



Quella strana messa che il papa non vuole

È la messa secondo il rito del Cammino neocatecumenale. Benedetto XVI ha ordinato alla congregazione per la dottrina della fede di esaminarlo a fondo. La sua condanna pare segnata.


Con una lettera autografa al cardinale William J. Levada, Benedetto XVI ha ordinato alla congregazione per la dottrina della fede di accertare se le messe dei neocatecumenali sono o no conformi alla dottrina e alla prassi liturgica della Chiesa cattolica. Un "problema", questo, che il papa giudica "di grande urgenza" per tutta la Chiesa. Benedetto XVI è da tempo in allarme per le modalità particolari con cui le comunità del Cammino neocatecumenale celebrano le loro messe, il sabato sera, in locali separati.

A far crescere in lui l'allarme è stata anche la trama ordita alle sue spalle in curia lo scorso inverno. Era accaduto che il pontificio consiglio per i laici presieduto dal cardinale Stanislaw Rylko aveva predisposto il testo di un decreto di approvazione globale di tutte le celebrazioni liturgiche ed extraliturgiche del Cammino neocatecumenale, da rendersi pubblico il 20 gennaio in occasione di un previsto incontro del papa con il Cammino. Il decreto era stato redatto su indicazione della congregazione per il culto divino, presieduta dal cardinale Antonio Cañizares Llovera. I fondatori e leader del Cammino, Francisco "Kiko" Argüello e Carmen Hernández, ne furono informati e anticiparono festanti ai loro seguaci l'imminente approvazione. Il tutto all'insaputa del papa.

Benedetto XVI venne a conoscenza del testo del decreto pochi giorni prima dell'incontro del 20 gennaio. Lo trovò sconclusionato e sbagliato. Ordinò che fosse cancellato e riscritto secondo le sue indicazioni. Infatti, il 20 gennaio, il decreto che fu promulgato si limitò ad approvare le cerimonie extraliturgiche che scandiscono le tappe catechistiche del Cammino. Il papa, nel suo discorso, mise in chiaro che solo queste erano convalidate. Mentre a proposito della messa impartì ai neocatecumenali una vera e propria lezione – quasi un ultimatum – su come celebrarla in piena fedeltà alle norme liturgiche e in effettiva comunione con la Chiesa.

In quegli stessi giorni Benedetto XVI ricevette in udienza il nuovo arcivescovo di Berlino, Rainer Maria Woelki, uomo di sua fiducia, che di lì a poco avrebbe fatto cardinale. Woelki gli parlò tra l'altro proprio delle difficoltà che i neocatecumenali creavano nella sua diocesi, con le loro messe separate del sabato sera, officiate da una trentina di sacerdoti appartenenti al Cammino. Il papa chiese a Woelki di fargli avere un appunto scritto sulla materia. Il 31 gennaio Woelki gli inviò una lettera con informazioni più dettagliate. Pochi giorni dopo, l'11 febbraio, il papa inoltrò copia di questa lettera alla congregazione per la dottrina della fede, assieme alla sua richiesta di esaminare al più presto la questione, che "concerne non soltanto l'arcidiocesi di Berlino". La commissione d'esame presieduta dalla congregazione per la dottrina della fede si sarebbe dovuta avvalere, secondo le indicazioni del papa, della collaborazione di altri due dicasteri vaticani: la congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e il pontificio consiglio per i laici.

E così è stato. Il 26 marzo, nel Palazzo del Sant'Uffizio, sotto la presidenza del segretario della congregazione per la dottrina della fede, l'arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, gesuita, si sono riuniti per un primo esame della questione i segretari degli altri due dicasteri – per il culto divino l'arcivescovo Augustine J. Di Noia, domenicano, e per i laici il vescovo Josef Clemens – e quattro esperti da loro designati. Un quinto esperto, assente, dom Cassiano Folsom, priore del monastero di San Benedetto a Norcia, inviò per iscritto il suo parere. I giudizi espressi sono stati tutti critici delle messe dei neocatecumenali. Molto severo è risultato anche quello che la stessa congregazione per la dottrina della fede aveva chiesto, prima della riunione, al teologo e neocardinale Karl J. Becker, gesuita, professore emerito alla Pontificia Università Gregoriana e consultore del dicastero. Il dossier predisposto per la riunione dalla congregazione per la dottrina della fede comprendeva la lettera del papa dell'11 febbraio, la lettera del cardinale Woelki al papa nell'originale tedesco e in versione inglese, il parere del cardinale Becker e una traccia per la discussione nella quale si metteva esplicitamente in dubbio la conformità alla dottrina e alla prassi liturgica della Chiesa cattolica dell'art. 13 § 2 dello statuto dei neocatecumenali, quello con cui essi giustificano le loro messe separate del sabato sera.

In realtà, il pericolo temuto da Benedetto XVI e da molti vescovi – come risulta dalle numerose denunce pervenute in Vaticano – è che le modalità particolari con cui le comunità neocatecumenali di tutto il mondo celebrano le loro messe introducano di fatto nella liturgia latina un nuovo "rito" artificialmente composto dai fondatori del Cammino, estraneo alla tradizione liturgica, carico di ambiguità dottrinali e fattore di divisione nella comunità dei fedeli. Alla commissione da lui voluta, il papa ha affidato il compito di accertare la fondatezza di questi timori. In vista di decisioni conseguenti. I giudizi elaborati dalla commissione saranno esaminati in una prossima riunione plenaria della congregazione per la dottrina della fede, un mercoledì – una "feria quarta" – della seconda metà di aprile.

sabato 7 aprile 2012

Sabato Santo, la grande apnea



dal blog di don Luigi Maria Epicoco

Oggi è sabato santo, ed è il giorno dell'impaziente attesa. E' il tempo in cui si trattiene il fiato prima di saltare, prima di riuscire da sott'acqua, prima di spalancare la porta e vedere chi c'è dentro. Normalmente quest'apnea dura qualche istante, la liturgia la prolunga per un intero giorno, mentre i Vangeli per ben tre giorni... La stessa apnea che Giona fece nella pancia della balena che lo aveva ingoiato, prima che lo vomitasse sulla spiaggia della sua vocazione.

Ma anche quest'apnea ha un gran ruolo in tutta questa storia. Non basta fare qualcosa o essere qualcuno, bisogna recuperare la vertigine emotiva di entrambe queste cose. Se non provi paura mista a speranza mentre fai qualcosa di importante allora forse non è veramente importante quella cosa. E' come se una donna partorisse un figlio senza provare nemmeno un frammento di un qualcosa che assomigli almeno lontanamente a un pò di paura e a un po di felicità. Bisogna avere paura della paura quando è sola, quando invece la paura è accompagnata dalla speranza, allora è solo adrenalina pura che ti fa trattenere il fiato prima di scoppiare in un gran pianto di gioia e stupore.

E' così che lo immagino il giorno in cui vedremo Cristo faccia a faccia. Per un intera vita forse abbiamo trattenuto il fiato, tormentati dalla paura che avevamo sbagliato tutto, ma anche coltivando la speranza che ne valeva la pena comunque. Si è cristiani quando accanto alla paura, che è una cosa umanissima, si ha il coraggio di lasciare sempre un posto di riguardo alla speranza. La resurrezione di Gesù altro non è che un buon motivo per cui non disperarsi mai veramente sino in fondo. La nostra vita è un lungo sabato santo che si incastona tra le nostre croci piantate nei venerdì santo della nostra vita, e l'alba della domenica di Pasqua dove l'assenza del cadavere ci ricorda che il finale è diverso da come sembrava a noi.

Ma ancora non è il momento di urlare di gioia. Siamo ancora in fila dietro le mirofore (le donne che andarano a ungere di profumo il corpo di Gesù), silenziosi, ansiosi e con il fiato sospeso di chi spera con tutto il cuore in un imprevisto...

Venerdì Santo a San Marco con il Patriarca


La Cappella della Reposizione


 S.E. Mons. Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo secondo Giovanni... 

Ecce lignum Crucis!

Ecce Agnus Dei, ecce qui tollis peccata mundi!