venerdì 2 marzo 2012

Il cardinale Ravasi: «Così porto la Chiesa nel "cortile" di Twitter»



L’amore che non si rinnova ogni giorno e ogni notte diventa abitudine e lentamente si trasforma in schiavitù. Una frase, una citazione, 140 caratteri possono contenere un fulgore e una profondità che abbaglia.

Tra i cinquecento milioni di persone che ogni giorno si misurano con i brevi testi di Twitter c’è anche il cardinal Gianfranco Ravasi e la citazione di Kahlil Gibran è uno dei suoi più recenti tweet insieme con passi dei Vangeli, frasi di Sciascia e John Lennon, Gesualdo Bufalino e Goethe, versetti del Libro di Siracide e delle Lettere ai Corinzi. 
Il tutto con una logica: tweet laici la mattina, tweet religiosi la sera. È l’attento e meditato esercizio di introdurre complessità e senso nella rigida e, a volte, un po’ svagata, onda dei tweet. E, allo stesso tempo, una risposta al pregiudizio di una chiesa chiusa al progresso. È lo sforzo del presidente del Pontificio consiglio della Cultura, sbarcato sul social network «per curiosità», ma immerso nei 140 caratteri con l’impegno e la profondità degli uomini di Chiesa. 

Cardinale, come e quando ha cominciato ad usare Twitter? 

«Da migrante digitale, e non da nativo digitale, ho cominciato a percorrere queste strade in maniera molto ingenua e molto curiosa. Ecco, è stata questa curiosità che mi ha spinto a cominciare…». 

Lei smentisce lo stereotipo di una chiesa chiusa al progresso? 

«Il mio compito è nell’ambito di un dicastero vaticano dedicato alla cultura. È, dunque, quello di avere il respiro nel cortile, non tanto nel tempio, più nella piazza che nel palazzo. Questo vale per tutta la cultura, non solo per il Vaticano, perché attualmente non c’è più il concetto aristocratico di cultura, c’è quello antropologico della cultura industriale. Ed è per questo che io sono uscito nel cortile. Ma ritengo che tutta la chiesa debba essere anche sulla piazza e non solo tra gli incensi del tempio». 

Concetti profondi nella brevità di Twitter: è questa la sfida della chiesa? 

«Uno degli aspetti più interessanti di Twitter è il vincolo del restare nella gabbia dei 140 caratteri. Questo ti costringe non soltanto all’incisività, al fulgore, al bagliore, ma anche al rigore. E questo va contro una certa tendenza attribuita all’eloquenza sacra, la quale, diceva Voltaire, “è come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta...”, perché i predicatori quello che non sanno dare in profondità, cercano di darlo in lunghezza». 

Non c’è il rischio di snaturare il messaggio della chiesa? 

«Questa è una domanda capitale, perché effettivamente percorrere le arterie di questo nuovo mezzo di comunicazione, non deve far dimenticare che il linguaggio è molto più sontuoso e glorioso, soprattutto quello religioso che ha secoli di elaborazione alle spalle. Per questo non si deve mai abbandonare la subordinata. L’informatica pretende le coordinate, le frasi brevi, mentre la filosofia, la teologia, la grande cultura, prediligono le subordinate, le deduzioni, le ramificazioni. Non usiamo Twitter in modo ingenuo». 

Lei ha oltre 13mila follower ma segue solo 32 persone. Segue altri cardinali, direttori di giornali, ma ci è sembrato di vedere solo un politico: Matteo Renzi. È una scelta di campo? 

«Per me è una sorpresa, non ci avevo fatto caso. Ma, al di là di Renzi, devo dire che il senso della mia partecipazione a Twitter è rivolta anche verso i non credenti e in particolare verso i polemici… In questi tempi in cui si parla molto di Ici della hiesa, su Twitter sono stato ininterrottamente bersagliato e devo dire che la palma del tweet più divertente va alla mia follower che ha parafrasato il motto di Sant’Agostino “Oh Signore fammi casto ma non subito” in “Oh Signore fammi catasto ma non subito”». 

Questa sua familiarità con il web ha trovato delle resistenze nel Vaticano? 

«Che ci siano delle perplessità è normale, a volte le ho anche io. Spesso c’è una deriva nella comunicazione informatica. E va approfondito l’impatto sulle culture giovanili, perché un ragazzo che sta cinque ore ogni giorno davanti a un computer muta antropologicamente. Ma d’altra parte, stare sul web è necessario perché è una nuova grammatica di linguaggio. E molti vescovi cominciano a frequentare il web: il vescovo di Soissons ha inventato le tweetomelie. Un modo per raggiungere un orizzonte di persone che non metteranno mai piede in una chiesa». 

Anche il Santo Padre è sbarcato su Twitter. È stato lei a consigliarlo? 

«No, il merito è di monsignor Celli, presidente del Pontificio consiglio delle Comunicazioni sociali e responsabile Vaticano di questo settore. Però recentemente con Benedetto XVI abbiamo a lungo parlato di questi argomenti ed era molto incuriosito dalla decifrazione di quello che io chiamo il “sesto potere”. Un potere che ha veramente una efficacia imperiale. Perché non si tratta più di un aggregato come poteva essere la televisione con l’occhio o il telefono per l’orecchio. È un vero e proprio ambiente in cui siamo immersi anche se non vogliamo esserlo…».

29 febbraio 2012

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